Seminario
RECUPERO DI TESTI CLASSICI ATTRAVERSO RECEZIONI IN LINGUE DEL VICINO E
MEDIO ORIENTE
Tito ORLANDI
TRADUZIONI DAL GRECO AL COPTO: QUALI E PERCHE'
Pur avendo aderito con entusiasmo al cordiale e gentile invito a
partecipare a questo seminario, nell'accettare ho messo le mani avanti,
così come desidero fare all'inizio del mio intervento. Infatti il
contributo che può dare la letteratura in lingua copta alla conoscenza,
non che al recupero di testi classici propriamente detti, cioè
dell'antichità classica, è sostanzialmente nullo. Per quanto se ne
possa sapere finora, e comunque per quanto ne sappia personalmente, si
possono in argomento indicare sei soli casi, e si vedrà quanto
deludenti.
Il primo caso consiste in un corto brano dalla Repubblica di Platone, e
precisamente dal IX libro, p. 588b1-589b3, in cui si tratta del
problema se possa rivelarsi conveniente commettere ingiustizie, pur
rimanendo giusti in apparenza (Orlandi 1977; Painchaud 1983).
Noi vedremo come il senso generale del testo greco è differente da
quello che troviamo nella traduzione copta; ma prima di affrontare
questo problema conviene aggiungere che la traduzione copta si trova in
uno dei codici del famoso ritrovamento detto di Nag Hammadi, e
precisamente in quello la cui numerazione definitiva è codice VI. Esso
contiene nella prima parte alcune opere di carattere gnostico (1. Acta
Petri et XII app.; 2. Bronte; 3. Authentikos Logos; 4. Noema magnae
potentiae); nella seconda parte alcune opere ermetiche (6. De enneade;
7. Oratio gratiae; 8. Apocalypsis ex Asclepio).
Il nostro testo occupa il punto centrale, ed è possibile che sia stato
copiato in quel punto proprio a marcare il passaggio fra esempi di
speculazione gnostica e ermetica, che presentavano teorie in certi
punti assai differenti. Quello che più importa in questa sede,
tuttavia, è che questa funzione (o qualunque funzione si volesse fare
assumere al testo) non deriva affatto dall'originale pensiero di
Platone, ma da un suo vero e proprio travisamento operato ad un certo
punto della tradizione.
Infatti, sebbene sicuramente identificabile con Platone, il testo copto
presenta delle differenze eclatanti. In un nostro studio le abbiamo
elencate minuziosamente (cf. anche la recente edizione di Poirier). Qui
basterà dunque indicare che si tratta non solo di semplici errori di
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traduzione (p.es. confusione di HMERVN da HMEROS con quello derivato da
HMERA); nè di varianti nel testo greco (p.es. DEUR'HKOMEN diventato
D'EURHSOMEN o ELECJH diventato HLEGCJH); nè di inavvertenza al
cambiamento degli interlocutori.
In realtà sono state introdotte tante piccole variazioni, da mutare
abilmente il significato generale del brano. Mentre Platone voleva
dimostrare, attraverso un esempio fantastico, che chi pensasse di
giovare a se stesso fingendosi giusto, ma in realtà facendo cose
ingiuste, si metterebbe nella stessa situazione di uno che, avendo a
che fare con una creatura formata di uomo e di leone, si preoccupasse
di nutrire e rafforzare la parte leonina, purché l'immagine esterna
restasse quella di uomo.
In copto i concetti fondamentali sono invece: 1. Colui a cui è stata
recata ingiuria fino in fondo, ricevette giustamente la gloria. 2.
Possiede una potenza che riceve ingiuria, ed una chi la reca. 3. Chi
reca ingiustizia non ne ricava utile, mentre chi parla nella giustizia
è utile a se stesso e Dio lo aiuta.
Le variazioni introdotte mutano il carattere del testo da filosofico a
religioso, accostandolo perfettamente al tipo di problematica trattato
nei testi precedenti e seguenti, nel codice. La domanda che si può fare
è se questo sia avvenuto contestualmente all'opera di traduzione,
oppure l'operazione fosse già stata condotta in greco. In questo
secondo caso, noi avremmo la testimonianza di una manipolazione tardo
antica del testo di Platone.
Il secondo caso di rapporti fra copto e greco classico viene anch'esso
da Nag Hammadi, dal codice II, nel trattato detto Exegesis de anima
(Scopello 1977; Sevrin 1983). In questo trattato si parla ad un certo
punto dell'anima come privata del Logos, suo sposo, ed anelante a
tornare in sua compagnia. Fra i paralleli ad una tale situazione,
insieme col profeta Geremia, è indicato Ulisse nell'Odissea.
Insieme a semplici allusioni, abbiamo in effetti una vera citazione:
HN AFRODITH
DVC', OTE M'HGAGE KEISE FILHS APO PATRIDOS AIHS
PAIDA T'EMHN NOSFISSAMENHN JALAMON TE POSIN TE
AFRODITH TENTAhR APATA MMOEI ASNT EBOL MPAYME. TA+R OUOOTS
AhIKAAS NSVEI AUV PAhAEI ETNANOUW RRMNhHT NSAEIE.
Anche qui, del resto, si nota qualche adattamento al tema, direi
soprattuto il "condusse" diventato "ingannò", e l'omissione di JALAMON.
Un terzo caso lo troviamo nelle opere di Shenute, che in effetti fu,
secondo la nostra ricostruzione dello svolgimento storico della
letteratura copta, colui che fece penetrare nella letteratura
originale, non di traduzione, i modi retorici e stilistici della
contemporanea cultura greca.
Fra gli autori di cui era al corrente (forse attraverso antologie
scolastiche) sembra sia stato anche Aristofane, di cui cita un paio di
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branni curiosi dagli Uccelli (ed. Amélineau 1907-14, vol. I, n. XI, p.
386), dove vengono imitati appunto i versi degli uccelli, talché il
contenuto non appare molto significativo.
Un quarto caso è rappresentato dalla traduzione di una parte del
trattato ermetico cosiddetto Asclepius (Mahé 1982), presente nello
stesso codice VI da Nag Hammadi di cui abbiamo parlato prima. La parte
in questione riguarda alcune predizioni sulle sventure che coglieranno
l'Egitto quando questo abbandonerà la religione dei padri. Il testo
copto, così come quello latino in nostro possesso, è tradotto dal
greco. Il confronto delle due traduzioni permette di ricostruire
abbastanza bene il greco perduto, nella sostanza se non sempre nella
forma.
Un quinto caso è assai più incerto. Si tratta di alcuni frammenti, che
troviamo in due tarde omelie copte (Ps. Epifanio De Nativitate e Ps.
Evodio De Passione), che potrebbero provenire dalla cosiddetta
Theosophia di Tubingen (di cui abbiamo però solo alcuni estratti), e
precisamente dai libri 8-11, in cui erano riportati oracoli e detti
pagani in favore di dottrine cristiane (Van den Broek 1978).
Finalmente abbiamo le frequenti allusioni, in vari testi copti, al
Physiologus (Kuhner 1985), di cui però non è detto che esistesse la
traduzione copta integrale di una delle versioni circolanti nella tarda
antichità.
* * *
Si vede dunque che i rapporti fra letteratura copta e testi classici
sono assai scarsi. Diverso invece, addirittura opposto per varie
ragioni, quello con i testi patristici, a cui mi è appunto stato detto
che il tema si poteva ovviamente ampliare. E su ciò verterà
principalmente il mio contributo.
C'è stato un tempo quando era opinione comune, e ancora si può udirla
ripetuta acriticamente, che la letteratura copta fosse nella quasi
totalità di traduzione, in particolare da testi greci. Dopo recenti
studi (Orlandi 1973), e soprattutto pubblicazioni di testi, si deve
affermare che le traduzioni rappresentano una buona parte della
letteratura copta, ma sicuramente non più della metà.
E' invece da sottolineare il fatto che anche la parte originale, per
motivi che non è qui il caso di esporre, è stata travestita, quasi resa
clandestina, per mezzo di attribuzioni a padri della Chiesa di lingua
greca. Per questo motivo è importante il lavoro di distinzione fra
testi autentici e falsificazioni più tardive, che solo potrà alla fine
lasciarci chiaramente comprendere quale peso percentuale hanno sul
totale le "vere" traduzioni.
Premesso che la distinzione fra testi autentici e falsi è abbastanza
agevole, date le caratteristiche formali e teologiche dei falsi, che
come abbiamo accennato sono relativamente tardivi; sarà comunque
opportuno, trattando delle traduzioni autentiche, fermarsi a quelle di
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cui il testo greco, pervenuto, ci fornisce una sicurezza totale.
Rimane comunque un grave dubbio: quello cioè di sapere quanto davvero
conosciamo dei testi copti che circolavano, diciamo, attorno al IV-V
secolo, se tanti frammenti (ed anche alcuni codici interi) sparsi nelle
raccolte di tutto il mondo, rimangono ancora inediti, talora
sconosciuti. Vorrei fare prima di tutto tre esempi tratti dal lavoro
recente dei coptologi.
Il bollandista padre Devos era per così dire alla caccia di frammenti
di un codice nel quale era contenuta un'omelia di autore incerto sul
brano biblico detto "il canto della vigna". Quel codice aveva una
scrittura di tipo abbastanza particolare, il che facilitava il
riconoscimento dei frammenti. Tuttavia, nel corso delle sue ricerche,
egli si accorse che era esistito un diverso codice, con la medesima
scrittura, e identificò come contenuto di alcuni frammenti di questo
secondo codice brani provenienti da omelie di Basilio di Cesare.
Messosi su questa nuova traccia, con la collaborazione di Enzo
Lucchesi, finì per ricostruire quanto rimane di un codice contenente un
intero corpus di omelie basiliane (Lucchesi 1981), la cui esistenza in
copto era del tutto ignorata; e precisamente:
1. In illud: destruam horrea mea CPG 2850
2. In illud: attende tibi ipsi 2847
3. In divites 2851
4. Exhortatio ad Baptisma 2857
5. De fide 2859
6. In eos qui irascuntur 2854.
Come si vede, non è aggiunta da poco al materiale disponibile delle
traduzioni copte di testi patristici.
Un secondo caso è di origine differente. Io stesso stavo lavorando alla
ricostruzione di opere di Shenute, l'importante autore originale copto
di cui abbiamo parlato anche sopra. In questo caso lavoravo su
materiale già edito, ma la situazione degli studi copti è tale che
spesso anche il materiale edito giace dimenticato e non studiato tal
quale come quello manoscritto. Bisogna dire che il giudizio sulla
qualità speculativa delle opere di Shenute era, fino a poco tempo fa,
molto negativo, ma a torto. Uno dei miei propositi era appunto quello
di trovare brani di Shenute teologicamente interessanti.
Quando mi imbattei in un lungo frammento in cui si commentava il libro
biblico dell'Ecclesiaste, il cui contenuto è esclusivamente di
carattere filosofico e non moraleggiante, mi misi ad esaminarlo con
attenzione, pensando che potesse essere un documento importante per le
mie ricerche. Uno dei primi passi fu naturalmente di confrontare il
testo con altri commentarii noti, per notarne analogie e differenze. Fu
così che mi accorsi che il testo, per tanto tempo attribuito a Shenute,
altro non era che la traduzione fedele e completa del commento
all'Ecclesiaste di Gregorio di Nissa (Orlandi 1981).
Per la cronaca posso dire che ho poi effettivamente trovato altri brani
teologici interessanti genuini di Shenute; quello che qui interessa è
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tuttavia sottolineare una certa casualità per la quale è stato
riconosiuto un testo di traduizione, oltretutto già pubblicato, di
tanta importanza per la questione generale delle traduzioni, come
vedremo.
Citeremo finalmente un terzo e diverso caso di ritrovamento di un
testo. René-Georges Coquin stava lavorando ai frammenti copti che
stanno dalla fine del secolo scorso nel deposito dell'I.F.A.O. al
Cairo, quando si imbatté in un lungo frammento di contenuto assai
interessante, perché trattava dell'immortalità dell'anima e argomenti
affini, cosa inusuale per la letteratura copta.
Approfondendo le ricerche, non gli fu difficile riconoscere che si
trattava del trattato di Gregorio di Nissa De anima et resurrectione.
Guidato da questo primo riconoscimento, fu in grado (di nuovo con
l'aiuto di Enzo Lucchesi) di aggiungere altri frammenti dello stesso
codice, conservati in altre raccolte (Coquin 1981), e talora anche
editi con proposte di attribuzione errate, per es. a Ippolito di Roma.
Si dimostrava, in questo caso, come opere importanti possano giacere
ignorate in collezioni in cui per diversi motivi gli studiosi hanno
difficile accesso.
Tutti e tre i casi ci portano ad un medesimo problema: è possibile,
basandosi sulla documentazione di cui oggi disponiamo, tentare di
tracciare un panorama storico e critico delle traduzioni di testi
patristici in copto, della loro consistenza, della loro evoluzione, e
delle loro caratteristiche? Quanto abbiamo mostrato porterebbe in
verità a concordare sul sostanziale scetticismo di molti, che affermano
essere del tutto prematuro tentare una sintesi; e a limitarsi a
lanciare appelli, sia pure provvisti di interessanti osservazioni, come
quello recente di Leslie Mac Coull (1984).
A nostro avviso è invece sbagliato continuare, pur con queste ragioni,
sulla strada percorsa fino ad oggi, con rare eccezioni. In effetti la
situazione attuale è caratterizzata da tre elementi.
1. L'interesse sollevato da questi testi (come da quelli originali
copti) è prevalentemente linguistico. Essi sono visti come
testimonianza della situazione e dell'evoluzione della lingua copta,
spesso in relazione con i precedenti stadi della lingua egiziana,
piuttosto che come testimonianze di cultura religiosa. Per questo sono
assai importanti iniziative di ricerca, come questa in cui si inserisce
il presente contributo, che contribuiscono a inquadrare le traduzioni
in copto nel loro ambito congeniale, quello della letteratura cristiana
antica.
2. Una conseguenza della posizione indicata sopra è il disinteresse per
il contenuto delle traduzioni, dal momento che di esse viene esaminata
esclusivamente la forma linguistica. Ma lo stesso avviene per i rari
casi in cui intervenga un punto di vista filologico. Questo infatti
studia il rapporto tra testo originale e traduzione con interesse
unicamente al contenuto del testo originale, senza chiedersi che cosa
rappresentasse il contenuto della traduzione per l'ambiente che l'ha
prodotta.
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In modo simile potremo considerare l'interesse puramente erudito, che
si preoccupa di identificare il maggior numero possibile di testi, e
dei relativi frammenti, senza voler compiere passi ulteriori di sintesi
storica. Un tale lavoro è certamente difficile e meritorio, ma spesso
serve di pretesto per rimandare alle calende greche il lavoro di
sintesi, che con i suoi pericoli è tuttavia il vero fine che questo
tipo di studi si propone.
3. Ulteriore conseguenza di tutto ciò è un disinteresse per lo studio
storico della letteratura copta. Raramente ci si chiede se sia
possibile dalla documentazione di cui disponiamo, ivi comprese le
traduzioni dal greco, riconoscere una linea di sviluppo della
letteratura copta, che consenta di stabilire come le traduzioni, da un
lato, e la produzione di opere originali, dall'altro, abbiano
interagito con la situazione storica della Chiesa egiziana, prima e
dopo Calcedonia, dando luogo ad un ambiente culturale con proprie
caratteristiche ed una propria evoluzione.
Sulla sostanziale negatività di questi tre elementi penso siano in
teoria tutti d'accordo. Ma se, come dicevamo, si rimane ancorati ad una
posizione di scetticismo relativamente alla nostra capacità di
superarli, nell'attesa e nel timore che nuovi documenti costringano a
cambiare una sistemazione storica tentata e proposta, difficilmente si
potranno fare passi avanti. Mentre a me sembra che, giunti al punto in
cui siamo, passi avanti si possano e si debbano fare.
Si tratta in sostanza di prendere la documentazione così come ci si
presenta oggi, e studiarla in quanto tale. Nessun lavoro in campo
storico sarà mai definitivo; e se in futuro qualche nuovo ritrovamento
provocherà un cambiamento di orizzonte, almeno sarà pronto un quadro
entro il quale recepirlo immediatamente, e valutarlo per quel che porta
di nuovo.
Perché in ogni modo la documentazione di cui oggi disponiamo presenta
alcune caratteristiche individuate ed individuabili, purché la si
consideri in maniera globale, senza fermarsi a questo o quel testo
particolare. Nell'ambito del tema proposto da questo seminario,
esamineremo dunque globalmente le opere di traduzione.
Due sono i punti focali di questa indagine, volta a determinare le
ragioni che hanno presieduto alla scelta dei testi da tradurre, in
relazione con lo sviluppo e le necessità dell'ambiente che ha operato
questa scelta. Il primo è rappresentato dai testi che ci sono; il
secondo da quelli che non ci sono. Vedremo che questo secondo punto non
è meno interessante.
Per quanto riguarda il primo punto, due problemi assai delicati sono:
1. La separazione fra i testi realmente di traduzione, e quelli che
sono presentati dai manoscritti come tali, ma sono un prodotto tardivo
di scuole letterarie copte (per questo cf. le nostre proposte di
soluzione in Orlandi 1973).
2. La cronologia delle traduzioni, che appaiono condotte in un arco di
tempo abbastanza vasto, con caratteristiche diverse (cf. per questo le
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soluzoni proposte in Orlandi 1984. A questo contributo rimandiamo anche
per la bibliografia specifica sugli autori trattati in basso, così come
alla Coptic Bibliography, pubblicata annualmente a Roma dal Corpus dei
Manoscritti Copti Letterari).
Dati dunque per risolti, sia pure con riserva, i problemi relativi a
quei due punti, vediamo come ci si presenta la situazione. Sarà
opportuno tenere separati i due periodi principali dell'attività di
traduzione dei copti, che possono essere così collocati. Un primo
periodo "antico", collocabile fra III e IV secolo; ed un secondo
periodo "classico" (tenuto conto anche dello sviluppo della lingua),
collocabile fra IV e prima metà del VI secolo. Il punto di separazione
è dato probabilmente dalla sistemazione teologica che è avvenuta nella
Chiesa egiziana all'epoca della controversia origenista.
Fanno parte delle traduzioni del primo periodo, prima di tutto quella
ovvia della Bibbia (per il Nuovo Testamento cf. Metzger 1977; nessuno
studio generale sull'Antico Testamento). Si dovrà solo tener presente
che il lavoro, che ci si presenta molto complesso, dati i vari dialetti
etc., avrà una sua appendice come "normalizzazione" del testo (V-VI
sec.). Meno ovvia è la traduzione dei testi gnostici e poi manichei,
che ci testimoniano la varietà culturale che caratterizzava il
primitivo ambiente "copto"
Abbiamo poi almeno alcune delle traduzioni di testi apocrifi (Orlandi
1983). Secondo le nostre indagini, sarebbero particolarmente antiche
quelle dell'Ascensio Isaiae e dell'Apocalypsis Eliae, per l'A.T.; e
quelle degli Acta Pauli, degli Acta Petri, dell'Epistula Apostolorum,
per il N.T.
Anche alcuni Padri Apostolici furono tradotti presto (IV sec.):
pensiamo al Pastor, all'ep. Clementis e alla Didaché. Meno certo
Ignazio; nulla sembra pervenuto di Policarpo.
Fra il materiale omiletico, è fondamentale notare come si trovino due
omelie di Melitone: De Pascha, e De anima et corpore. Esse erano
probabilmente fra i caposaldi dell'esegesi "asiatica"; ed allo stesso
ambiente dovrebbe risalire la possibilmente antica traduzione di
un'omelia anonima De templo Salomonis, come si ricava da elementi
teologici interni.
Si nota dunque in questo primo periodo, da una lato una certa
completezza di materiale. I testi più importanti della cristianità
erano rappresentati almeno nei loro generi letterari fondamentali:
Bibbia, Apocrifi, Padri apostolici, prime omelie. Dall'altro lato (e
parallelamente, come è naturale) si nota una varietà di impostazione
culturale: troviamo testi di scuola alessandrina e anche testi di
scuola asiatica; testi "ortodossi" e testi gnosticizzanti; testi
cristiani e testi manichei.
Nel secondo periodo sembra invece che ci troviamo di fronte a due
fenomeni, anch'essi del resto naturalmente complementari: un
appiattimento teologico (o meglio esegetico; di teologia vera e propria
non si potrà più parlare); una scelta molto parziale fra il materiale
offerto dalla tradizione greca, che in questo periodo diventa
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estremamente ricca.
Vediamo dunque quello che c'è, per poi venire a qualche considerazione
su quello che non c'è. In particolare, poiché ci soffermeremo in
seguito sulle opere dei Padri, qui indicheremo il materiale diciamo
così "non (o meno) personalizzato".
In primo luogo la Storia Ecclesiastica, di cui troviamo un solo
esempio, oltretutto di genere composito. Infatti, escluse le opere
classiche di Socrate, Sozomeno e Teodoreto, quella che diventerà nella
tradizione copta LA storia ecclesiastica per eccellenza, è composta di
due parti. La prima consiste nella traduzione rimaneggiata dei primi 7
libri di Eusebio; la seconda di una cronaca redatta in greco,
probabilmente al tempo di Timoteo II (ca. 470) sulla base della
documentazione esistente presso il patriarcato di Alessandria.
La qualità della seconda parte è nettamente scadente, anche se si
trovano molti spunti interessanti. La prima parte, pervenuta purtroppo
molto frammentaria, sembra possa offrire una nuova documentazione
relativa alla doppia edizione della Storia di Eusebio, e comunque alla
sua ricezione e tradizione in ambiente egiziano.
Anche per quanto riguarda le raccolte di Canoni e di Atti di Concilii
le traduzoni copte offrono un materiale essenziale, oltretutto
fortemente caratterizzato in senso egiziano. Abbiamo così le raccolte
dei Canones Ecclesiastici, comuni alla tradizione "internazionale" più
classica; e vicino ad essi quelle dei Canones Basilii e Canones
Athanasii, opere probabilmente pseudepigrafe di ambiente egiziano. Di
simile origine (sempre comunque in greco) devono essere le raccolte
propriamente conciliari: una per Nicea, una per Efeso (con narrazioni
veramente particolari), ed una per Calcedonia.
Le traduzioni di testi monastici sono anch'esse rappresentative di
tutto l'arco delle possibilità, sebbene non particolarmente numerose,
come ci si potrebbe aspettare. Troviamo le Vite di Pacomio; la Vita di
Antonio (di Atanasio); le Lettere di Antonio; le Vite di Paolo e di
Ilarione di Gerolamo; gli Apophthegmata Patrum; Isaia di Sceti; una
vita di Giovanni di Licopoli tratta in parte dall'Historia Lausiaca, ma
con aggiunte post-calcedonensi; la Vita di Simeone Stilita.
Un settore particolarmente ricco è quello delle traduzioni più
propriamente agiografiche. In questo caso è certo che il copto ci ha
tramandato testi greci non più esistenti nella versione originale, ma
proprio per questo diventa delicato distinguere le traduzioni dalla
produzione che sul loro esempio venne eseguita dai copti stessi nella
propria lingua.
Sulla base di elementi interni ed esterni, pensiamo che quella
distinzione si possa fare; ed in base ad essa possiamo tracciare una
lista, sia pure precaria ed incompleta. Incontriamo dunque in primo
luogo dei classici dell'agiografia più antica: le Passioni di Colluto,
Psote, Pietro di Alessandria; quindi alcune Passioni collegate in una
specie di ciclo costruito intorno al prefetto Ariano: Ascla, Filemone,
Pantaleone, Herai, Dios, Epimaco, Coore e lo stesso Ariano.
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Possiamo riconoscere anche un ciclo di martiri giulianei: Giuda
Ciriaco, Eusignio, Mercurio e il suo miracolo; ed uno di martiri
monaci: Papnute di Dendera, Panine e Paneu, Pamin, Pamun e Sarmata.
Come si vede, la scelta è fatta tenendo soprattutto presenti gli
interessi della Chiesa egiziana, ma non mancano escursioni negli
ambienti della cristianità internazionale e non regionale.
Un posto a parte va dato agli Apocrifi, per i quali però è spesso più
lecito parlare di ispirazione che di traduzione. Parliamo qui degli
apocrifi che vengono composti in epoca più tardiva, rispetto a quella
antica di cui abbiamo già parlato. Fra i classici, di cui è sicuro un
originale greco corrispondente, vi sono solo gli Acta Pilati (Vangelo
di Nicodemo), e la Visio Pauli.
I testi che sono stati ampiamente manipolati nella tradizione copta
sono invece numerosi: tutta l'ampia raccolta degli Atti Apocrifi degli
Apostoli, in varie versioni più o meno ampie; la Storia di Giuseppe
Falegname; il Transitus Mariae (in due versioni); l'Apocalisse di
Bartolomeo; l'Apocrifo di Geremia; i Testamenti di Abramo, Isacco e
Giacobbe.
Si tratta in questo caso di una tradizione in continua crescita e
manipolazione, che ci testimonia della fortuna del genere letterario
senza che sia possibile rendersi esattamente conto dello stato delle
fonti greche da cui questa tradizione ha preso origine.
Tutto sommato mi sembra che fin qui il quadro sia quello di una cultura
non ricchissima, ma ben equilibrata nelle sue scelte e dunque nelle sue
esigenze. Un riguardo particolare era dato a ciò che più direttamente
poteva interessare l'Egitto, ma sempre nell'ambito di una comunità
culturale più ampia. I caratteri della cultura copta non appaiono
diversi nella sostanza, ma semmai solo nella quantità, da quelli della
cultura greco-internazionale, siriaca, latina, etc.
Ben diversa si presenta la situazione, quando passiamo alle opere dei
grandi autori della Patristica greca. In questo caso sono assai più
impressionanti le assenze delle presenze. Ci libereremo subito dei casi
di Clemente alessandrino, Origene, Didimo cieco. Il primo è
probabilmente troppo antico, anche se la sua assenza contrasta con la
presenza massiccia (in un certo senso) di Melitone di Sardi. Gli altri
due, pur grandi rappresentanti della scuola alessandrina, saranno stati
spazzati via dalla crisi appunto origenistica fra la fine del IV e il V
secolo. E tuttavia si deve ricordare che la tradizione copta ha
mantenuto vivo il nome il nome (e qualche estratto) di Evagrio, e anche
mantenuto qualche opera di scuola evagriana (Agatonico di Tarso). Non
sarà un caso che Evagrio fu monaco, a differenza degli altri due.
A noi interessano qui soprattutto quelle personalità di cui pur
qualcosa è stato tradotto. E' su questi nomi che deve appuntarsi
l'indagine che stiamo qui tentando.
Attribuita ad Atanasio troviamo qualche omelia, che può essere forse
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autentica; ma, si badi, nulla di sicuro. Sembra che fosse tramandato
per intero il commento ai Salmi. Ma sicuramente assenti sono tutte le
grandi apologie storiche; e le omeli a lui attribuite dalla tradizione
greca, che pure non sono sicure. Assenti sono anche i trattati
teologici contro gli ariani. Abbiamo invece la raccolta delle Epistulae
Festales, che probabilmente sono da inquadrare insieme con le raccolte
canoniche, che abbiamo visto essere tenute in gran conto dai traduttori
copti. Le lettere alle Vergini rappresentano tuttora un problema di
attribuzione.
Migliore è la situazione di Basilio; ma anche qui, contro la presenza
di una decina di omelie autentiche, di carattere essenzialmente morale,
registriamo l'assenza di tutti i trattati dogmatici; della raccolta
delle Lettere; delle grandi omelie esegetiche sull'Exemeron e sui
Salmi. Troviamo invece i testi di interesse monastico, cioè le raccolte
di Regole.
La situazione di Teofilo è disperata nella tradizione greca; ma non è
migliore in quella copta. Il suo nome è importantissimo presso i copti,
ma ciò gli ha fruttato l'attribuzione di un ciclo tardivo dedicato alla
distruzione di templi pagani e alla costruzione di Chiese; non la
traduzione di omelie che possano essere considerate autentiche, salvo
forse soltanto due. E' pervenuta la lettera festale del 401 contro gli
Orgenisti, che sembra facesse parte di un appostio dossier, e dunque
staccata dalla raccolta ufficiale, perduta in copto come in greco.
Gregorio di Nazianzo non aveva speciali meriti per essere divulgato
presso i copti. E' logico tuttavia trovare il suo encomio in onore di
Atanasio, e si trovano poi soltanto: In Basilium, De Pascha (Hom. 45),
De amore erga pauperes (Hom. 14); tutte le altre omelie, i poemi, le
lettere, mancano all'appello.
Di Epifanio di Salamina erano stati tradotti l'Ancoratus e il De
gemmis; non risulta tradotto il Panarion nè altre opere.
Di Amfilochio di Iconio abbiamo in copto un'omelia, che probabilmente è
autentica, ma manca nella tradizone greca, e del resto non riveste
grande significato. E' il frutto della tipica esegesi "teatrale", i cui
meriti sono essenzialmente letterari.
Di Cirillo di Alessandria abbiamo l'Epilysis in XII Capitula e gli
Scholia de incarnatione; ma tramandati insieme con raccolte canoniche.
Inoltre alcune lettere inviate a Shenute. Nulla invece dei grandi cicli
esegetici, delle opere dogmatiche, del Contra Iulianum che pure è
menzionato dalla Historia Ecclesiastica di cui abbiamo parlato sopra.
Di Proclo di Costantinopoli, conosciuto evidentemente come sostenitore
di Cirillo ad Efeso, sono state tramandate non più di un paio di omelie
comprese nella raccolta greca, di contenuto dogmatico; ed un'altra
inserita però negli Atti di Efeso.
Tre casi particolari sono costituiti da Gregorio di Nissa, Giovanni
Crisostomo, Severo di Antiochia. Del primo abbiamo già accennato sopra,
e ci sembra in effetti l'unico caso in cui ci si presenta un vero e
proprio corpus di opere, più ancora che teologiche, di tipo
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speculativo. Ci riferiamo alle traduzioni del Dialogus de anima et
resurrectione e a quella del commento all'Ecclesiaste. Non è molto,
rispetto a tutta l'opera del Nisseno, ma sembra comunque eccezionale
rispetto al materiale degli altri Padri passato in rivista sopra.
Il caso sembra tanto isolato, che ci ha indotto ad emettere l'ipotesi
che si possa trattare del lavoro di una particolare scuola
tendenzialmente origenista, ma prudentemente al riparo dei rigori
formali del patriarcato, lavoro che ha potuto trovare una collocazione
nel proseguimento della tradizione copta.
Giovanni Crisostomo ha invece goduto, oltretutto a dispetto dei suoi
noti rapporti con Teofilo, di una fama e di un rispetto inusitati nella
tradizione copta; e questo gli è valso una quantità di traduzioni
(oltre che di attribuzioni e ricostruzioni tardive, come del resto agli
altri) che si può definire imponente. E' vero che sono assenti, come
tali, le raccolte di omelie esegetiche (tranne il caso di In Ep. ad
Hebr., che esamineremo sotto), quella famosa De statuis, molti
trattati, e la raccolta delle Lettere. In compenso abbiamo parecchi
trattati giovanili di carattere monastico e una cinquantina di omelie.
La predilezione sembra dovuta a ragioni di stile letterario e non di
contenuto speculativo (questo si vede dalla scelta delle omelie). Si
può forse aggiungere una propensione copta verso Giovanni Crisostomo
come campione di una polemica contro l'autorità centrale di
Costantinopoli, che richiama la lotta dei copti per la libera
espressione delle loro convinzioni dottrinali.
Il caso di Severo è importante, perché denota invece una predilezione
che non può non essere dovuta, più che allo stile letterario, alla
considerazione che egli godette in Egitto come uno dei grandi padri
della dottrina anti-calcedonense. Per questo molte delle sue omelie
sono state tradotte, anche se non sembrano presenti i trattati
propriamente dogmatici.
Prima di cercare di trarre alcune conclusioni dalla documentazione
presentata, desideriamo presentare due casi che ci sembrano emblematici
di interventi redazionali sui testi, mentre erano tradotti o anche
(forse) dopo che lo sono stati.
L'omelia di Gregorio di Nissa detta De divinitate Filii et Spiritus
Sancti prende spunto dall'esegesi del brano biblico relativo al
sacirifcio di Isacco, per dimostrare la distinzione reale del Padre e
del Figlio e la divinità di quest'ultimo. In copto esiste il testo di
un'omelia, attribuita a Gregorio di Nazianzo, il quale è formato da:
un'introduzione omiletica; la traduzione di una parte del testo greco
del De divinitate Filii et Spiritus Sancti di Gregorio di Nissa (PG 46,
col. 565B-572D contro col. 553-576, cioè 7 colonne su 21); una
conclusione omiletica.
Con questo riadattamento, il copto evita tutta la parte speculativa del
testo del Nisseno, e l'omelia diventa un'esegesi puramente esortatoria,
diretta a richiamare i genitori ed i figli ai rispettivi doveri di
obbedienza.
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E' in qualche modo analogo il caso che presenta un grosso codice (forse
300 pagine; ma pervenuto frammentario) interamente dedicato alle omelie
esegetiche di Giovanni Crisostomo sull'Epistola agli Ebrei. L'analisi
del codice deve essere ancora approfondita, ma è possibile dire alcune
cose.
La divisione delle omelie non corrisponde a quella che troviamo in
greco. Le omelie erano presentate come isolate una dall'altra, ed in
effetti, se non ci fosse il testo greco, non sarebbe possibile
identificarle come i brani di una raccolta esegetica unitaria. Il
titolo si riferisce soltanto agli argomenti morali trattati in ciascuna
"omelia". Le omelie erano composte di excerpta scelti con riguardo
appunto a quegli argomenti, e senza tenere conto della originale
destinazione dell'opera crisostomica.
* * *
Venendo ora alle conclusioni, occorre premettere che esse dovrebbero
essere viste alla luce del problema più generale della trasmissione dei
testi patristici già al loro tempo, su cui ha opportunamente richiamato
l'attenzione il Gribomont, in un importante articolo, ma che non è
stato ancora sufficientemente approfondito.
Quanto, del patrimonio che ci è rimasto, è testimonianza di una
diffusione abbastanza larga fra i cristiani anche di media cultura; e
quanto invece è solo il retaggio di pochi ambienti di alta cultura e di
particolari interessi? Si comprende che dalla soluzione di questo
problema dipende l'apprezzamento che possiamo fare dell'opera dei
traduttori copti, perché essi evidentemente si rivolgevano ad un
pubblico classificabile nel primo tipo, e non già del secondo.
Rimanendo dunque in questo ambito, si possono tuttavia notare alcune
caratteristiche che appaiono tipicamente "copte", in quanto differenti
da quelle della cultura egiziana in lingua greca.
1. Inclinazione per le raccolte "ufficiali", o destinate a diventare
tali. Questa inclinazione funziona sia nel senso di tradurre alcuni
testi (p.es. l'Historia Ecclesiastica, alcuni corpora di Canones, atti
di concilii), sia però anche nel senso che alcune di quelle raccolte
tendono ad eliminare altre concorrenti.
2. Influenza dell'ambiente monastico. Questo si vede nella scelta delle
opere in sè (quelle indirizzate a monaci sembrano incontrare la
preferenza dei traduttori), ma anche nella scelta dei temi, per cui ci
sembra di notare una certa preferenza per le omelie "adattabili"
all'ambiente monastico.
3. Netto rifiuto delle opere di carattere speculativo e documentario.
Questo è il punto più delicato, che ha fatto spesso esprimere sulla
letteratura copta in generale, e sull'ambiente culturale che essa
esprime, giudizi poco lusinghieri.
Ora, il giudizio sulla letteratura in sè ci sembra meno rilevante.
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Importa invece mettere bene in luce che la letteratura copta deve
essere vista solo come UNA PARTE dell'espressione degli ambienti da cui
è stata prodotta. Secondo noi quegli ambienti sono sempre stati
fondamentalmente BILINGUI, per cui la scelta delle opere da tradurre
obbediva non a criteri soggettivi, ma oggettivi.
Ci spieghiamo. In quello che abbiamo distinto come "secondo periodo"
dell'attività di traduzione, è probabile che gli ambienti culturale
egiziani abbiano operato una distinzione fra opere che era più
opportuno mantenere in greco, probabilmente perché non destinabili a
diffusione ampia; ed opere che erano tradotte in copto per avere una
buona diffusione PROPRIO in tale lingua. Tale distinzione trova il suo
criterio proprio sul carattere speculativo o morale (o canonico) degli
scritti in questione.
E' anche possibile che le opere speculative fossero lasciate
volutamente nelle mani dei più esperti, perché dopo Calcedonia la
letteratura precedente era vista nel complesso della tradizione
internazionale in lingua greca, e non dava quindi affidamento dal punto
di vista dogmatico. Questo spiegherebbe, p.es., il diverso trattamento
fra lo stesso Cirillo e Severo di Antiochia.
Si noti che, quando la lingua araba soppianterà in Egitto
definitivamente, anche se lentamente, sia il copto sia il greco, si
ritroveranno nella letteratura araba cristiana di nuovo perfettamente
appaiate sia le opere speculative, che non erano passate attraverso la
tradizione in lingua copta, sia le altre, delle quali l'originale greco
era spesso addirittura scomparso.
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