Tito ORLANDI
     
     LA LETTERATURA COPTA E LA STORIA DELL'EGITTO CRISTIANO
     
     
     
     1. La nascita della letteratura copta
     
     La nascita e lo sviluppo della letteratura copta sono intimamente
     legati alle circostanze storiche che hanno accompagnato
     lo sviluppo della Chiesa cristiana in Egitto. La letteratura
     copta non si presenta come un fenomeno spontaneo di espressione
     di contenuti svariati, ma come una creazione meditata e
     in gran parte programmata per soddisfare esigenze di
     ambienti culturali che gravitavano intorno alla Chiesa cristiana.
     
     Per attuare questo disegno si dovette creare praticamente
     ex-novo una lingua letteraria. L'egiziano utilizzato intorno
     al II secolo d.C. (epoca in cui possiamo collocare gli inizi
     dell'operazione "copto") era una lingua assai povera
     di possibilità espressive, soprattutto di tipo concettuale
     e teorico. Quello che sopravviveva dell'antica letteratura
     in lingua egiziana (1) poteva servire a ricordare l'esistenza
     di un glorioso passato, ma non costituiva un modello
     per la produzione di opere quali sono state poi effettivamente
     proposte in lingua "copta". Si è dunque provveduto a
     formare una lingua essenzialmente nuova, nella cui
     struttura potessero coesistere gli elementi della lingua
     egiziana tradizionale, come era parlata (e raramente scritta)
     nel suo ultimo stadio (cosiddetto demotico, dal VII sec. a. C.
     al V sec. d. C.), e gli elementi della lingua greca,
     che forniva i modelli letterari che dovevano essere
     prima tradotti e poi imitati.
     
     Chi abbia ideato e condotto un'operazione del genere,
     è una domanda alla quale non è stata ancora data
     risposta soddisfacente (2). Del resto, la documentazione
     su cui basarsi è assai scarsa. Nessuna fonte "indipendente"
     ci dà alcuna notizia, per quanto breve, o anche falsa,
     relativa alla nascita della letteratura in lingua
     copta. Eusebio stesso, che menziona parecchie volte
     la lingua siriaca, e sostanzialmente annuncia la
     nascita della letteratura siriaca nella notizia 
     circa Bardesane (HE IV 30), non
     parla mai della lingua egiziana né della sua letteratura,
     che pure al suo tempo esistevano.
     
     Le varie ipotesi che sono state fatte dagli
     studiosi moderni (Lefort, Steindorff, Schmidt) (3)
     prendono in considerazione i tre ambienti religiosi
     che corrispondono ai testi (sempre traduzioni dal greco)
     che si trovano nei manoscritti più antichi: quello
     cristiano "normale" (dal momento che si trovano
     testi del Nuovo Testamento), quello cristiano "gnostico"
     (dal momento che si trovano testi gnostici), e quello
     giudaico (dal momento che si trovano testi dell'Antico
     Testamento). Naturalmente ciascuna delle categorie
     di testi menzionate può provenire da uno dei due
     ambienti cristiani; ma ad ogni modo non sembra che
     questa strada sia la migliore per trovare una soluzione
     al nostro problema.
     
     E' utile anzitutto sbarazzarsi di un pregiudizio che
     purtroppo trova un accordo pressoché unanime negli studiosi, 
     e cioè che il lavoro di traduzione
     in lingua copta sarebbe stato attuato per mettere
     i testi in questione alla portata di quei settori
     della popolazione egiziana che non conoscevano il
     greco. Che cosa si intenda con questo in realtà non è molto chiaro,
     ma quello che mi sembra di capire non mi soddisfa per
     parecchi motivi. Il modo più normale per rendere comprensibile un
     testo greco ad un egiziano che non conoscesse il greco
     dovette essere prima di tutto la traduzione orale,
     in particolare la spiegazione in lingua egiziana di
     ciò che era stato prima letto in greco, vuoi in una
     cerimonia liturgica vuoi in una riunione a carattere
     catechetico (anche di gruppi gnostici, che fossero
     interessati a far proseliti). Il produrre libri contenenti
     traduzioni per un pubblico ignorante e
     sicuramente poverissimo (si parla infatti sempre di
     contadini della Valle del Nilo) non può essere stata
     un'idea di quei tempi.
     
     Ma poi, e soprattutto: la lingua usata per queste traduzioni
     non sembra essere stata propriamente l'egiziano di
     quel tempo. Come abbiamo detto, un egiziano letterario
     non esisteva praticamente più da molto tempo (e il
     copto nasce invece con piene caratteristiche letterarie);
     l'egiziano aveva certamente assorbito un certo
     numero di vocaboli greci, ma non certo tutti quelli che
     si trovano comunemente nei testi copti di cui parliamo, e
     che fanno ritenere che chi davvero non conoscesse il
     greco non potesse nemmeno capire il copto. Anche la
     sintassi e direi la stilistica del copto si compredono,
     per quanto posso vedere, soltanto sulla falsariga
     della sintassi e della stilistica del greco, e sarebbero
     state difficilissime per le persone ignoranti a cui
     i testi avrebbero dovuto essere diretti.
     
     In sostanza mi sembra che un altro tipo di ipotesi sia
     più consona alla documentazione in nostro possesso, e
     alle circostanze storiche nelle quali essa fu prodotta.
     E' probabile che nell'epoca in cui nacque la letteratura
     copta, i nuovi fenomeni religiosi (dei quali il principale
     fu il cristianesimo) si incontrassero in Egitto con il rinascere
     di sentimenti nazionali connessi con la nostalgia per
     l'antica cultura autoctona che stava definitivamente
     tramontando. Se si aggiungessero anche motivi
     di insoddisfazione politica ed economica per il modo
     con cui la classe dominante greca (e in parte ora romana)
     conduceva l'amministrazione del Paese, e contrasti fra
     la capitale Alessandria e la "chora" egiziana non si
     può dire con certezza (4).
     
     L'antitesi culturale fra religione tradizionale (che
     nell'epoca di cui parliamo era un miscuglio di riti e
     miti greci ed egiziani) e cristianesimo; e l'antitesi
     linguistica fra greco ed egiziano (poi copto), forma
     un intreccio in qualche modo sorprendente. Gli ultimi
     grandi filosofi pagani (5) che guideranno
     nel V secolo la resistenza al cristianesimo si
     esprimeranno in greco, e avranno forti legami con la
     cultura greca internazionale di Atene e dell'Asia Minore.
     Al contrario, il copto verrà usato quasi esclusivamente
     dai cristiani, che avversavano il culto tradizionale, e
     più tardi, nell'epoca di Shenute, contribuiranno a
     distruggere i templi rimasti attivi, e a disperderne
     i sacerdoti.
     
     E' possibile che il Cristianesimo fosse visto (nonostante
     i legami con il giudaismo, che presto si sciolsero
     per dar luogo a rivalità) come il portatore di un'assoluta
     novità, che poteva essere considerata in alcuni ambienti
     come l'espressione di una rivolta contro la situazione
     presente, in cui i rappresentanti della religione tradizionale
     erano compromessi con il regime dominante e la sua cultura.
     Il Cristianesimo poteva essere il veicolo per il recupero
     di elementi nazionali e tradizionali (la lingua, l'ansia
     di riscatto...) che non partecipavano come tali a quel
     compromesso.
     
     L'operazione fu comunque, secondo noi, voluta e pilotata
     da una élite, come è dimostrato dal fatto che i manoscritti
     più antichi di cui disponiamo (quasi tutti contenenti
     traduzioni di testi biblici) testimoniano una lingua
     perfettamente stabilita nelle sue regole grammaticali
     e sintattiche, ed un'ortografia assai accurata, per la
     quale dunque fin dall'inizio sono state concepite regole
     precise. E' vero d'altra parte che possediamo anche una
     serie di testi altrettanto antichi (IV secolo) che
     testimoniano invece un linguaggio ed una ortografia
     assai meno accurati. Ma questo significa soltanto, a nostro avviso,
     che l'esempio dato dal gruppo di cui abbiamo parlato prima
     è stato imitato da altri gruppi (tutti comunque operanti
     in ambito cristiano, anche se non necessariamente
     ortodosso), i quali tuttavia non si saranno troppo preoccupati
     della qualità formale della loro produzione.
     
     Dopo questi inizi, la storia della letteratura copta
     si presenta da un lato come un'evoluzione verso forme
     letterarie che soddisfacessero, in questa lingua "nuova",
     alcune delle esigenze della vita culturale della Chiesa cristiana;
     dall'altro come una serie di risposte diverse e talora
     contradditorie a problemi vitali posti dalle vicissitudini
     di quella stessa Chiesa. E' da questo punto di vista, ed
     in particolare facendoci guidare da quattro dei fenomeni
     più importanti in questo senso, che cercheremo di dare
     un'idea dei caratteri e dell'evoluzione della letteratura
     copta.
     
     
     
     2. La letteratura copta e il monachesimo egiziano.
     
     Gli inizi del monachesimo, come movimento di una certa
     consistenza, in Egitto si possono collocare all'inizio
     del IV secolo. E' appena terminata la grande persecuzione di
     Diocleziano, l'ultima e la più dura, o almeno la più propagandata, che
     lascerà soprattutto in Egitto una memoria del tutto particolare,
     legata addirittura ad un sistema di datazione ("anno
     dei Martiri"). Con la sua fine, si apre l'epoca della grande
     pace religiosa, in cui il Cristianesimo è finalmente libero
     di esercitare il proselitismo e di organizzarsi senza alcuna
     restrizione, e in breve acquisterà il privilegio di religione
     ufficiale. Tuttavia occorre ricordare che ancora in
     questo periodo il numero degli appartenenti alla
     Chiesa cristiana in Egitto era scarso, ed è dunque all'interno
     di un movimento "di punta", se non di élite, che si forma
     un movimento di punta "ulteriore" (6). Questo comporta, a mio
     modo di vedere, che all'interno del monachesimo delle origini,
     accanto a motivi spirituali ed anche economico-sociali (sui
     quali di solito anche troppo si insiste, e che forse
     diventeranno preponderanti con l'espansione del fenomeno) dovevano
     esistere componenti culturali e dottrinali di notevole importanza.
     
     L'espansione del monachesimo è descritta dalle fonti antiche nei
     suoi elementi principali, ma non in dettaglio (7).
     Si comprende d'altra parte che ciò sarebbe stato impossibile, in mancanza
     di un reclutamento diciamo così sistematico, ma basato su
     un volontariato che avrà obbedito a impulsi di vario carattere.
     Il fatto fondamentale (riscontrato fin dai primordi, se possiamo
     credere alla descrizione che Atanasio fa del primo periodo
     di Antonio) sembra essere che intorno ad un personaggio
     "esemplare", cioè che si poneva personalmente come esempio
     di un certo genere di vita, si radunavano gruppi di seguaci,
     dei quali i più significativi diventavano a loro volta centro
     di attrazione per altri gruppi. Si determinò così una
     crescita geometrica, testimoniata dalle cifre impressionanti
     date dalle stesse fonti antiche, che del resto sono
     documentate dai resti archeologici.
     
     Le grandi personalità del primo monachesimo egiziano
     sono molto note attraverso gli ampi resoconti che storici
     e memorialisti contemporanei (o poco successivi) gli hanno
     dedicato. Antonio è colui che la tradizione, basandosi sulle indicazioni
     date da Atanasio, considera il fondatore del movimento monastico,
     colui che per primo, ispirato da un preciso versetto evangelico,
     si ritirò dal mondo per condurre una vita dedicata soltanto
     agli interessi religiosi (8). Fra questi interessi, secondo
     il quadro probabilmente tendenzioso che voleva proporre
     Atanasio, erano la lotta contro i demoni del deserto e la
     lotta contro gli eretici in quanto organizzati in gruppi;
     non sarebbero stati compresi, invece, la cultura e la riflessione
     dottrinale. Per questo motivo Antonio è stato visto anche
     dalla critica fino a tempi recenti come una persona di
     grande spiritualità ma completamente ingenua, ignorante
     perfino della lingua greca, solo disposto ad aiutare il
     suo Patriarca per l'unità del popolo cristiano, quando ve
     ne fosse bisogno. La rivalutazione della raccolta delle
     sue lettere, pervenute in modo fortunoso, che fa permanere
     qualche dubbio sulla completa genuinità, ha modificato
     questo luogo comune storiografico. 
     
     Le lettere di Antonio (parliamo qui delle sette lettere la
     cui tradizione ha maggiore consistenza) sono 
     conosciute attraverso la traduzione
     latina di un manoscritto greco andato perduto; una
     versione araba dal copto; un frammento abbastanza consistente
     del copto; una versione completa in georgiano; una versione
     siriaca della sola lettera prima (9). Si discute se la redazione
     originale fosse in greco o in copto, e comunque se risalga 
     davvero ad Antonio o gli sia stata attribuita da un anonimo autore.
     Non possiamo ovviamente soffermarci su
     tali problemi, ma diremo che a nostro avviso il testo copto deve
     essere considerato una traduzione dal greco, e che la critica
     moderna propende per l'autenticità delle lettere. In questo
     caso esse testimonierebbero di una figura indubbiamente
     colta, al corrente delle idee filosofiche del tempo.
     Abbia o meno egli redatto in copto i suoi scritti, si può
     ritenere che da un ambiente di questo tipo possa essere
     stato originato il movimento che ha portato alla nascita
     della letteratura copta.
      
     Vi sono molti elementi nelle lettere
     che fanno ritenere Antonio legato all'interpretazione
     origeniana della dottrina cristiana, tanto che il Couilleau
     può affermare che "occorre ammettere che una corrente che si può ben
     chiamare origenista avanti lettera abbia fecondato il
     monachesimo delle origini. Dopo tutto, l'origenismo che
     Evagrio doveva trovare nel deserto dei Kellia non è
     nato per generazione spontanea" (10).
     
     Sembra accertato, in Antonio, un disinteresse per 
     gli aspetti organizzativi della vita monastica,
     forse addirittura una opposizione. Per questo furono piuttosto
     i suoi discepoli, andando evidentemente oltre le primitive
     intenzioni dell'ispiratore, a fondare e far progredire
     quelle che diventeranno in breve le grandi comunità
     del Basso Egitto, tutte situate nella parte occidentale
     del Delta del Nilo (ramo Canopico): Sketis, Nitria (Pernouj),
     Kellia (11). Il nome fondamentale per quest'opera è Macario (quello
     chiamato Egizio), a cui i posteri si richiameranno tanto
     sistematicamente, da darci la certezza che egli abbia precisato
     il carattere sia organizzativo sia dottrinale di queste
     comunità. Esse erano costituite da monaci autonomi, ma
     viventi in piccole comunità con gli alloggi abbastanza
     vicini. Nei giorni e momenti fissati vi erano riunioni
     di culto, guidate da monaci facenti regolarmente parte anche
     del clero, cioè della gerarchia ecclesiastica cittadina.
     
     La dottrina prevalente in queste comunità era quella
     origenista, tanto che Evagrio vi troverà l'ambiente
     più congeniale a passare gli ultimi anni della sua vita.
     La lingua letteraria era, per quanto se ne può sapere,
     il greco. Il copto (nella varietà dialettale che viene
     chiamata boairico) è presente solo nelle iscrizioni
     trovate negli scavi di Kellia (12), ed è possibile
     che sia testimoniato da alcuni codici boairici antichi
     contenenti testi biblici che possono provenire
     dall'ambiente di cui ci stiamo occupando. Ma tale ambiente
     aveva una fitta rete di relazioni "internazionali" che
     venivano evidentemente coltivate mediante lo scambio di
     testi greci.
     
     Nello stesso periodo, al Sud dell'Egitto, Pacomio metteva
     a punto un tipo diverso di organizzazione monastica. La
     sua opera è troppo nota per volerla riassumere qui (13). Desidero
     però proporre alcune osservazioni. La caratteristica
     dell'organizzazione pacomiana non sta tanto nel "modo di
     vita" che egli immaginò per la sua comunità (e per quelle
     che via via ne nacquero). Modi di vita simili erano
     probabilmente condotti anche da altri gruppi contemporanei ma
     indipendenti, e lo saranno successivamente. Quello che dà
     il carattere ai Pacomiani è prima di tutto la redazione
     di una regola fissa e precisa che i monaci si impegnano
     a rispettare. Se le regole che ci sono state tramandate
     siano esattamente quelle originali o vi sia stato un lavoro
     redazionale anche posteriore, in questa sede non è il caso
     di discutere (14). Piuttosto va detto che accanto e come conseguenza
     della Regola è il fatto che i Pacomiani si consideravano
     un gruppo unitario sotto il comando di un capo, una specie
     di esercito. Questo vale, e tanto più, anche dopo la grande
     espansione dell'ordine, con la creazione di una rete di monasteri
     che andava da Pbou al Sud fino al Canopo al Nord. Essi
     tutti obbedivano al successore di Pacomio, residente appunto a Pbou.
     
     Se dal punto di vista organizzativo la differenza
     fra Macariani (diciamo così) e Pacomiani è fondamentale, da
     quello dottrinale le cose stanno diversamente. Qui a mio
     avviso una differenza interessante sta nell'uso che si
     fa in ambiente pacomiano della lingua copta, cioè di un
     ibrido fra egiziano e greco sviluppato nel corso del III
     secolo da ambienti che volevano in qualche modo raccordare
     la tradizione antica con il nascente Cristianesimo.
     Ma per quanto riguarda i contenuti, sembra possibile
     affermare che i Pacomiani erano perfettamente allineati
     con le posizioni del Patriarca alessandrino, e dunque
     col didaskaleion, e dunque con un origenismo più o meno
     moderato. Le affermazioni in contrario sono chiaramente
     tardive, ed anzi sono espresse in modo tale da confermare
     l'esistenza dell'origenismo presso i Pacomiani. Va aggiunto
     oltretutto che gli studi sui testi copti definibili gnosticizzanti
     fanno propendere anche per l'ipotesi che presso i Pacomiani
     si potesse trovare un origenismo parecchio spinto nel
     senso che si può definire propriamente gnostico (15).
     
     Si noti che tutto ciò, anche se contraddice a qualche
     visione storica tradizionale, dovrebbe apparire semplicemente
     ovvio, dal momento che la dottrina elaborata ad Alessandria
     e accettata come ovvia presso la Chiesa egiziana fino a
     Teofilo (e per la verità anche oltre, dopo la crisi) non
     poteva che richiamarsi ad Origene, sia pure con qualche
     differenza nei riguardi di teorie particolari. Ci si
     dovrebbe invece meravigliare che esistessero contemporaneamente
     dei gruppi che, come abbiamo detto, si rifacevano ad un
     tipo di esegesi del tutto diverso. Questi gruppi esistevano,
     ma le fonti che li attestano sono molto particolari, e devono
     essere interpretate con molta cautela. 
     
     Almeno due figure emergono come importanti, in questo
     contesto: Apollo di Bauit(-Titkooh) e Paolo di Tamma.
     Il primo ha lasciato tracce in iscrizioni e calendari
     liturgici che ci attestano la sua fama (16). La sua vita è
     narrata in un testo copto che appare nella sostanza antico
     e degno di fede. Apollo sarebbe stato al principio un anacoreta
     del tipo solitario, che dopo un periodo di noviziato presso
     un certo Petra si stabilì presso Shmun con alcuni compagni.
     Ivi lasciò una comunità, e poi riprese la vita itinerante,
     fondando parecchi monasteri nella stessa regione.
     
     Su Paolo di Tamma abbiamo notizie meno sicure: egli
     deve aver passato la vita sempre isolato, ma in qualche
     modo in contatto con altre grandi figure monastiche del
     periodo come Amun, Apollo, Aphu, ed altri (17). Di lui ci sono
     pervenuti però scritti molto interessanti, che possono
     essere messi in relazione la letteratura monastica in
     lingua greca (cosiddette Lettere di Antonio, di
     Ammona, di Macario Egizio, etc.). Essi mancano del tutto di struttura
     letteraria (come del resto gli scritti dei Pacomiani),
     e sono formati di aforismi senza alcun apparente legame
     fra loro. Solo in qualche caso si riferiscono ad un
     tema, che è quello generale dell'opera in cui sono
     riuniti; ma senza svolgere un ragionamento i cui
     elementi passino dall'uno all'altro aforisma. Le
     citazioni scritturali sono naturalmente molto numerose.
     
     Fra la fine del IV e l'inizio del V secolo si forma, e
     acquista sempre maggiore importanza, la figura del
     grande Shenute, a cui si rifa tutta la tradizione copta
     come elemento fondamentale della propria identità
     spirituale. Stranamente ignorato dalle fonti greche,
     egli rivestì un ruolo di primo piano, sia nei rapporti
     con la non piccola parte di popolazione ancora legata
     ai culti tradizionali, sia nelle controversie cristologiche
     culminate nei concilii di Efeso e di Calcedonia (18).
     
     Ma egli ebbe importanza non minore dal punto di vista
     letterario. Fu fecondissimo autore originale in lingua
     copta; portò nella letteratura copta tutto il bagaglio
     di tecniche retoriche greche pre-cristiane, che già
     erano state adottate dai Padri greci, in particolare
     dai Cappadoci; promosse, nell'ambito del suo monastero
     (chiamato oggi Monastero Bianco), una vasta attività di
     traduzione di testi dal greco in copto. Il suo successore,
     Besa, ne continuò l'opera; e il Monastero
     Bianco resterà fino all'XI sec. il centro culturale
     della Chiesa copta.
     
     
     
     3. La lotta intorno all'origenismo.
     
     In tutta la storia dottrinale della Chiesa egiziana fra
     il III e il V secolo serpeggia un'antitesi che probabilmente
     non è dovuta solo a diverse attitudini culturali e spirituali,
     ma anche alle condizioni storiche e sociali dei diversi
     ambienti nei quali si formano e si sviluppano le due
     correnti di pensiero antagoniste.
     Da una parte abbiamo la corrente che prende le mosse
     da una interpretazione allegorizzante della Scrittura,
     e sviluppa una teologia basata sul Logos, dunque
     su una concezione spiccatamente spiritualistica
     dell'evolversi della storia sacra, dall'origine del
     mondo alla venuta del Salvatore. Dall'altra la
     corrente che, mantenendo l'interpretazione della
     scrittura in un ambito quanto più possibile letterale,
     (e tuttavia in ciò facendo ampio uso della "tipologia")
     sviluppa una teologia più
     vicina ad un certo sentimento comune del sacro, nel
     quale il lato materialistico non viene del tutto
     schiacciato a favore di quello spirituale.
     
     Dal punto di vista geografico, l'ambiente in cui hanno
     avuto origine queste due correnti sono: quello
     alessandrino, sotto l'influsso diretto
     della scuola filosofica platonizzante, che ebbe 
     il massimo esponente in Origene, attorno alle cui teorie
     si giocherà la battaglia finale fra le due scuole (19);
     e quello asiatico, sotto l'influsso dello stoicismo,
     che ebbe prevalenza ecumenica fino al II secolo con
     esponenti quali Melitone, Ireneo, Tertulliano,
     conobbe un'eclisse con la polemica condotta in modo
     assai deciso da Origene, ma riemerse in modo vincente
     con Epifanio, Girolamo e il Teofilo "seconda maniera"
     (dal 401 in avanti) (20).
     
     Sembrerebbe dunque improbabile che nell'Egitto del
     IV secolo, in cui la scuola alessandrina avrebbe dovuto
     costituire il punto di riferimento dottrinale comune,
     vi fossero dei forti nuclei di tendenza "asiatica".
     Ed in effetti, come abbiamo visto, tutto il monachesimo dei centri
     che si erano costituiti presso il Delta (Nitria,
     Sceti, Kellia) era in vario modo origeniano; e
     gli stessi pacomiani, nel Sud, erano schierati su
     analoghe posizioni, nonostante la più tarda descrizione
     agiografica "post eventum" che si trova nelle varie
     redazioni delle vite di Pacomio.
     
     Invece proprio in alcuni testi copti, dei quali solo
     recentemente si è cominciato a studiare il vero
     significato storico e dottrinale (21), abbiamo la prova
     che esistettero, probabilmente fin dagli inizi della
     espansione del Cristianesimo lungo la valle del Nilo,
     gruppi che si richiamavano alla scuola asiatica, e
     tale posizione mantennero sempre fedelmente, fino
     a costituire, al momento della crisi definitiva del
     401, il nucleo vincente della disputa teologica ed
     esegetica combattuta intorno all'origenismo. 
     Il fatto che siano i testi copti a darci
     tale documentazione testimonia probabilmente che
     elementi di contrapposizione sociale e forse etnica fra 
     la Chora egiziana e la metropoli di Alessandria non furono 
     estranei alla contrapposizione dottrinale.
     
     Il primo dato interessante è fornito dalla diffusione
     dell'opera di Melitone presso i Copti. Oltre a due
     codici papiracei in lingua greca del IV sec., trovati comunque
     in Egitto (22), è conservato un codice papiraceo, anch'esso
     probabilmente del IV sec., con la traduzione copta
     del Peri Pascha. Altri frammenti molto antichi della
     stessa traduzione testimoniano la diffusione dell'opera
     presso i Copti (23); ed inoltre un rimaneggiamento del
     De anima et corpore venne conservato nella tradizione
     copta almeno fino al VII secolo, sia pure sotto il nome 
     di Atanasio di Alessandria.
     
     E' da notare che il testo del Peri Pascha era divenuto presto 
     molto raro nella stessa tradizione patristica greca, tanto 
     che era ritenuto perduto 
     fino a poco tempo fa, quando a poca distanza uno
     dall'altro furono scoperti i papiri a cui si accennava
     sopra. Dunque non si può ritenere casuale questa
     situazione, anche se è evidente che in Egitto la
     conservazione di testi altrove periti è dovuta
     alle caratteristiche climatiche, che hanno contribuito
     alla conservazione (nelle sabbie desertiche) di
     manoscritti antichi.
     
     Si deve allora ritenere che Melitone godesse in Egitto
     di notevole considerazione, e questo suscita una
     certa meraviglia. Proprio sulla questione della
     Pasqua si era manifestata una grave controversia fra 
     Clemente alessandrino e Melitone. Clemente difendeva la 
     celebrazione della festa
     nella domenica successiva al 14 nisan, mentre gli
     asiatici davano importanza soprattutto al 14 nisan.
     La disputa non dipendeva tanto da questioni cronologiche,
     quanto dall'interpretazione esegetica del
     "fatto" pasquale. E' dunque strano che proprio l'omelia
     pasquale di Melitone sia stata tanto tenuta in pregio
     in Egitto (24).
     
     L'altra omelia di Melitone, De anima et corpore, è perduta come testo a 
     sè nella tradizione greca principale, salvo che per alcuni 
     excerpta inclusi in altre omelie dall'antichità. Invece ne 
     abbiamo il testo completo, sia pure in redazioni differenti,
     in copto (sotto il nome di Atanasio) (25);
     in siriaco (sotto il nome di Alessandro di 
     Alessandria); in georgiano (sotto il nome di ambedue).
     Il copto sembra dare l'idea più completa 
     del testo originale, che era diviso in due parti. La seconda 
     parte è in certo senso la più ovvia, e parla 
     dell'incarnazione e della passione del Salvatore, in termini 
     molto simili a quelli del Peri Pascha. La prima parte, invece, 
     contiene un notevole brano teologico sul problema della 
     relazione fra anima e corpo, che in ogni caso è molto 
     lontano da una teologia che potesse essere accettabile per 
     un seguace della scuola alessandrina.
     
     Dunque si constata la diffusione in Egitto di una 
     delle maggiori autorità della scuola teologica "asiatica", 
     per la quale la scuola alessandrina non nascose mai la
     propria opposizione, a causa soprattutto della sua esegesi 
     ingenua, semplicistica, e talora pericolosamente 
     materialistica.
     
     Le stesse osservazioni sono da fare per un'altra
     omelia, che non può essere attribuita a Melitone,
     ma sembra originaria dallo stesso ambiente asiatico.
     Essa è attribuita, nell'unico codice che la tramanda,
     a Basilio di Cesarea (26), e consiste in un'esegesi del brano 
     biblico relativo alla costruzione del Tempio di Salomone, 
     interpretato come un'allusione alla creazione del 
     mondo, prima, e poi dell'uomo.
     Il testo comincia con un interessante brano che
     si rifà alla cosiddetta teologia 
     "del silenzio", il silenzio nel quale il mondo fu creato, in 
     contrasto col rumore che accompagnerà la sua distruzione. 
     Quindi il tempio è preso come simbolo dell'uomo, 
     creato direttamente da Dio; quindi si parla del peccato, cha 
     ha causato (o causerà) la distruzione sia del mondo, sia 
     dell'uomo, ed in particolare la rovina dei Giudei. 
     Finalmente si accenna alla redenzione di Cristo, attraverso 
     la quale il corpo dell'uomo è di nuovo purificato.
     E' soprattutto la teologia del silenzio, che sembra non 
     avere paralleli, dopo i brani di Ignazio di Antiochia, Eph. 18 
     e Mag. 8, che lega questa 
     omelia alla linea "asiatica" che va da Ignazio a Marcello di 
     Ancira, il quale fu addirittura un forte oppositore della 
     linea alessandrina.
     
     Sembra dunque di poter concludere che la documentazione
     copta rivela una situazione molto diversa dal quadro
     convenzionale, secondo cui il cristianesimo 
     egiziano deriva direttamente dal cristianesimo alessandrino. 
     Invece occorre ammettere un quadro più complesso, 
     nel quale una molteplicità di elementi diversi stabilirono 
     fra loro varie forme di relazione.
     
     L'elemento nuovo, quello dell'influenza asiatica, pone 
     il problema di cercare quale fosse l'ambiente egiziano che 
     l'ha accettata e sembra averne fatto la sua caratteristica 
     prevalente. Per trovare questo ambiente, occorre a nostro 
     avviso rivolgersi al movimento monastico. 
     Le traduzioni copte di questo periodo sono 
     generalmente attribuite al monachesimo di tipo pacomiano. 
     Questo tuttavia non risolve il nostro problema, perché, sebbene in 
     effetti Pacomio sia stato il primo (o uno dei primi) ad aver 
     adottato la lingua copta, egli ed i suoi successori non 
     erano interessati, anzi si opponevano, alla cultura 
     patristica greca del loro periodo, con i suoi modelli 
     retorici, ed è quindi assai improbabile che abbiano 
     fatto o fatto fare delle traduzioni.
     Oltre a ciò, le lettere di Pacomio (con il loro 
     linguaggio mistico), mostrano almeno una certa tendenza verso 
     qualche genere di gnosticismo o per lo meno di cultura 
     gnosticizzante, e questo porta ad escludere un atteggiamento 
     amichevole verso l'esegesi asiatica.
     
     Esistono invece altri testi, relativi alle vite di 
     Aphu di Ossirinco e di Apollo di Bauit (presso Shmun), e le 
     opere di Paolo di Tamma (tutti nel medio Egitto) (27), che 
     possono risolvere il nostro problema. Essi infatti delineano 
     l'ambiente monastico del Medio Egitto come il possibile 
     ricettacolo della teologia asiatica, con una esegesi 
     tendenzialmente letterale ed un materialismo spinto fino 
     all'antropomorfismo. Per la verità, nè la Vita di
     Apollo nè le opere (comunque molto interessanti dal
     punto di vista della storia della spiritualità monastica)
     di Paolo di Tamma forniscono elementi sicuri per
     collocare queste due figure sul versante anti-origenista
     o non alessandrino. Ma esse sono da un lato dimenticate
     dalla tradizione greca "ufficiale", dall'altro accomunate
     con Aphu nella tradizione letteraria copta.
     
     La figura di Aphu è senza dubbio una delle più
     interessanti che ci fornisca la documentazione
     copta (28). Egli sarebbe stato un asceta dedito ad un tipo
     di ascesi straordinario, che consisteva nel vivere
     mescolato ad una mandria di bufali, nei pressi della
     città di Ossirinco, scendendo solo una volta all'anno
     in città per le celebrazioni pasquali. Appunto in
     occasione di una Pasqua (penso si alluda a quella fatidica 
     del 399) ascoltò la lettura della lettera pasquale in
     cui Teofilo si esprimeva (secondo il testo della Vita)
     in questo senso: "Quasi per innalzare la gloria di
     Dio, egli rammentava l'inferiorità degli uomini, e
     quello che parlava (in realtà si tratta della lettura
     della Lettera Festale, come si comprende poi) diceva:
     Non è l'immagine di Dio quella che noi uomini portiamo."
     Aphu si reca direttamente ad Alessandria da Teofilo
     per contestare queste idee: "... udii una frase in
     essa (= nella lettera) che non concorda con le scritture
     ispirate da Dio". Segue un dibattito esegetico, alla
     fine del quale Teofilo si convince e invia una rettifica
     (allusione alla lettera del 401?) in senso anti-origenista.
     
     In questo caso, della polemica intorno all'origenismo
     è stato preso in considerazione solo uno degli aspetti.
     Ma questo aspetto, per quanto meno interessante per noi
     a paragone della preesistenza delle anime o del subordinazionismo,
     doveva essere uno dei principali per gli ambienti monastici,
     e forse proprio quello su cui si giocò la partita
     essenziale.
     
     Sul versante dell'origenismo, una
     testimonianza interessante è fornita dal corpus
     di opere attribuite alla fittizia figura di Agatonico
     di Tarso (29). Essa fu costruita in ambienti evagriani
     per attribuire ad una autorità di provenienza non
     egiziana scritti che non potevano portare il nome
     dell'autore reale, che del resto non conosceremo mai.
     Siamo probabilmente nel momento critico in cui
     Teofilo rompe l'accordo con gli ambienti origenisti
     di Sceti, Nitria e Kellia, per schierarsi a favore
     dell'opposto schieramento. Come è noto, questo
     determinerà la diaspora di quei monaci, e, a quanto
     sembra, la produzione di opere clandestine a difesa
     delle posizioni che ufficialmente non potevano essere
     sostenute.
     
     Scrive dunque lo ps. Agatonico in una specie di
     "confessio fidei": "Chi si figura la sostanza della
     divinità nel suo cuore pose una forma nel suo cuore
     dicendo: Dio è in questa forma, calunniando la divinità.
     L'arconte della tenebra è colui che suggerisce queste
     sostanze inferiori nel cuore degli sciocchi ingannandoli
     come se la divinità fosse di questa forma, ed essi
     adorano degli idoli senza saperlo." E ancora:
     "Non si deve restringere la divinità in una piccola sostanza
     inferiore come quella dell'uomo, che non può mutare nella
     sua inferiorità. Coloro che si oppongono a queste
     parole sono degli sciocchi, che hanno gli occhi del loro
     cuore appannati".
     
     Le opere delle Ps. Agatonico, scritte originariamente
     in greco, ebbero fortuna in ambiente copto, come testimoniano
     le traduzioni pervenute (l'originale greco è invece perduto).
     Ma tali traduzioni ebbero una loro storia. Eseguite
     dapprima fedelmente, esse rispecchiavano le idee
     origeniane ed evagriane dell'autore; ma accolte in
     un altro ambiente, probabilmente quello scenutiano di
     cui ci occuperemo fra poco, esse furono sottoposte
     ad alcuni adattamenti (p.es. tutto il primo brano
     citato fu omesso; altri furono omessi o stravolti),
     tanto da assumere un aspetto antropomorfita ed anti-origeniano.
     
     Il momento del voltafaccia di Teofilo rappresentò
     un momento di crisi acutissima fra il patriarcato e
     quegli ambienti che fino allora, in sintonia più o meno
     perfetta con le sue posizioni, avevano coltivato la
     dottrina origenista. Le fonti greche sono assai esplicite
     nei riguardi del conflitto che si generò con i monaci
     di Nitria, Sceti e Kellia; nulla invece ci dicono
     di ciò che riguarda i pacomiani. Quello che sia accaduto
     (a parte il fatto che alcune fonti ci dicono che
     una parte dei monaci del Nord trovò rifugio in quel
     frangente presso conventi pacomiani, al Sud) è
     desumibile da un lato da quanto dicono le Vite di
     Pacomio sugli origenisti, ove si riporti correttamente
     il significato di tali episodi a questo periodo piuttosto
     che a quello in cui Pacomio era in vita; dall'altro
     da un interessante testo di ambiente pacomiano, in
     cui Teofilo e Horsiesi hanno una parte tutta particolare (30).
     
     Esso riporta un episodio che si presenta sconcertante,
     e cioè che, all'ascesa al trono di Teofilo (la cronologia 
     è fissata sicuramente nei parr. 43-44) un miracolo che avveniva 
     puntualmente ai suoi predecessori nel giorno del battesimo (il 
     sabato precedente la Pasqua) non avviene più, e Teofilo è 
     avvertito in una visione che solo la presenza di Horsiesi potrà 
     di nuovo farlo avvenire. 
     L'opera di cui parliamo fu scritta probabilmente al fine 
     di chiarire, nel modo più opportuno, i rapporti fra l'organizzazione 
     pacomiana e il patriarcato alessandrino, nel momento
     in cui il mutamento dottrinale di Teofilo avrà
     causato non pochi problemi presso il movimento pacomiano,
     che aveva fedelmente recepito le direttive dottrinali
     precedenti. Non c'è dubbio 
     comunque che il redattore vedesse i problemi dal punto di vista 
     dei pacomiani, e dunque dovesse appartenere egli stesso alla 
     comunità pacomiana o esserle molto vicino. 
     
     Chi invece saluterà con entusiasmo il mutamento teofiliano,
     e ne resterà il combattivo custode contro ogni tentativo
     di restaurazione anche lontanamente origeniana sarà
     Shenute, il grande archimandrita che organizzò il suo
     monastero secondo criteri pacomiani, senza tuttavia mai
     aderire al movimento pacomiano in quanto tale.
     Come abbiamo visto, egli si differenziò dai pacomiani
     anche culturalmente. Prima di tutto, accolse le tecniche
     letterarie della retorica greca, che, per quanto sembra,
     i pacomiani avevano rifiutato. In secondo luogo, sembra
     che fin dall'inizio della sua opera si sia legato alle
     correnti monastiche del Medio Egitto (cfr. sopra),
     anti-origeniste. Siamo comunque documentati sul fatto
     che in una omelia, da collocare poco dopo il Concilio
     di Efeso (431), Shenute si scaglia contro Origene:
     "...il bestemmiatore che dice: come è possibile che
     il corpo e il sangue del Signore siano pane e vino?
     Sono fra di noi coloro che dicono ciò, gente il cui
     cuore è stato ferito dalle parole di Origene" (31).
     
     Inoltre siamo documentati sul fatto che intorno al 440 il
     vescovo Dioscoro chiese la sua cooperazione per un'opera
     di bonifica intrapresa nei riguardi di elementi origenisti
     del clero alto-egiziano.
     In questa occasione Shenute tradusse la lettera di
     Dioscoro, che doveva essere letta e commentata nei
     monasteri; ma compose anche un'opera sua personale, in
     cui trattava ampiamente la questione origenista dal
     suo punto di vista, e vi pose in appendice la traduzione
     della lettera festale in cui a suo tempo Teofilo aveva
     abbracciato la causa anti-origenista (32). L'opera di
     Shenute rappresenta un contributo interessante sia
     per le sue conoscenze dottrinali, sia soprattutto per
     la documentazione a cui fa riferimento puntuale, e
     che in parte coincide con i testi gnostici copti in
     nostro possesso.
     
     
     
     4. La crisi calcedonense come sbocco delle rivalità fra
     i grandi patriarcati
     
     Il concilio di Calcedonia determinò una separazione sia
     dogmatica sia gerarchica con la maggior parte delle
     altre Chiese, ed ebbe naturalmente anche conseguenze di
     carattere culturale, col distacco
     sempre più accentuato della tradizione letteraria in lingua copta da   
     quella greca di tipo internazionale (33).
     Tali conseguenze non furono   
     immediate; esse cominciarono a prendere consistenza verso l'inizio  
     del VI secolo, quando le vicende seguite all'esilio di Teodosio di  
     Alessandria fecero cessare le speranze di un riavvicinamento 
     fra i patriarcati calcedonensi e anti-calcedonensi 
     e soprattutto della possibilità che si svolgesse 
     in Egitto una normale vita ecclesiastica, mantenendo convinzioni
     dogmatiche e gerarchie diverse da quelle approvate ufficialmente dalla  
     sede imperiale.
     
     Il greco cominciò ad  essere sentito come lingua 
     degli oppressori, e la cultura greca 
     patristica guardata con sospetto, come veicolo di dogmi e di notizie
     storiche legati alle Chiese con cui non
     c'era più comunione. Si cominciò dunque a  
     sentire la necessità di costruire una cultura storica e spirituale 
     (la teologia vera e propria rimaneva un campo tutto speciale) tipicamente   
     egiziana (copta), in opposizione a quella appoggiata dal governo
     centrale dell'impero bizantino. 
     La volontà di differenziazione  
     rispetto a quanto veniva da Costantinopoli portò prima alla
     chiusura rispetto alle novità, alle eventuali nuove opere che giungessero  
     in greco in Egitto, e poi alla 
     decisione di non utilizzare più la lingua greca nella
     produzione di opere destinate alla vita ecclesiastica. Questo  
     processo riguarda gli aspetti più specificamente letterari dell'uso
     delle due lingue, perché non solo le questioni amministrative  
     che riguardavano la magistratura bizantina, ma certo anche le questioni 
     ecclesiastiche con le altre Chiese anti-calcedonensi (prima fra tutte   
     quella di Siria), continuarono a svolgersi in greco.
     Dal punto di vista letterario, per qualche tempo ancora
     la scelta della lingua dipese probabilmente non da 
     ragioni culturali, ma geografiche. Le opere concepite nell'ambito   
     di Alessandria (e delle comunità che più direttamente gravitavano 
     intorno ad essa) saranno state redatte in greco; quelle concepite   
     nell'ambito dell'Alto Egitto, in copto. 
     
     Tutta la produzione di questo periodo, sia essa originale copta
     o traduzione, ebbe carattere storico-polemico. 
     Alcuni testi sono storici in senso "tecnico", come la
     Storia ecclesiastica copta; altri sono classificabili
     come appartenenti ad un genere in certo senso di confine
     fra l'agiografia, la disputa teologica e la storia.
     
     La Storia ecclesiastica fu probabilmente concepita
     nel tempo del vescovo alessandrino anti-calcedonense
     Timoteo II detto Eluro, e per sua ispirazione (34).
     Essa comprendeva due parti ben distinte. La prima parte era   
     la traduzione dei primi 7 libri dell'Historia Ecclesiastica di  
     Eusebio di Cesarea, con alcune modifiche. 
     La seconda parte consisteva di 5 libri (i libri erano dunque
     in tutto 12). Cominciava probabilmente con il  
     resoconto della persecuzione di Diocleziano,
     e proseguiva con la crisi meliziana,
     il concilio di Nicea, la crisi ariana,
     il pontificato di Teofilo con la
     distruzione dei templi pagani, in paricolare del
     Canopo che viene trasformato   
     in uno dei maggiori centri del monachesimo pacomiano (monastero della   
     Metanoia). Si parlava poi di un fantomatico vescovo Filippo di Anatolia   
     al tempo di Valentiniano e Valente; della storia di Arsenio, 
     precettore dei figli di Teodosio e poi monaco nella Nitria; del 
     carattere degli imperatori Arcadio ed Onorio e dell'invasione di
     Alarico; del conflitto fra Giovanni Crisostomo ed Eudossia. Si giunge   
     così alla parte cruciale e finale della Historia. Di Cirillo si narrava
     come egli fosse tenuto in grande considerazione dalla corte imperiale,  
     e come facesse distruggere le opere di Giuliano l'Apostata contro i 
     Cristiani; quindi i suoi rapporti con Nestorio ed il concilio di Efeso;
     quindi le ultime vicende di Nestorio, i suoi rapporti con Shenute
     e la sua morte nell'esilio egiziano. Finalmente si narravano le tragiche  
     vicende di Dioscoro e del concilio di Calcedonia; e subito dopo il tormentato
     periodo dei due vescovi rivali Timoteo Eluro e Timoteo Salofaciolo  
     (Pshoi in copto).   
     
     La redazione primitiva fu quasi certamente in greco;
     vi sono elementi per ritenere che la traduzione copta
     sia stata eseguita contestualmente, in ambito
     shenutiano, ma con alcune modifiche che riguardavano
     appunto il ruolo di Shenute nella crisi nestoriana, e
     forse il misterioso vescovo Filippo di Anatolia.
     
     E' questa l'opera più importante del
     periodo di cui ci stiamo occupando, e rispecchia più di ogni altra  
     l'affermarsi di una coscienza nazionale delle Chiesa egiziana, che  
     ancora si considera parte integrante della Chiesa internazionale, ma
     comincia a riflettere sulla sua storia per trovarvi una 
     propria particolare identità e le ragioni della propria fedeltà 
     ai veri dogmi e alle vere tradizioni del  
     cristianesimo. Essa è rimasta nella tradizione copta dei secoli posteriori 
     come l'opera storica fondamentale, e la fonte autorevole a cui attingere
     le notizie di cui si avesse bisogno. Ad essa farà ricorso 
     il primo redattore della Storia dei Patriarchi araba, che con la   
     sua continuazione ha sempre rappresentato
     il testo storico ufficiale del patriarcato alessandrino (35).
     
     Fra gli altri testi, che come abbiamo detto stanno
     fra l'agiografia e la polemica teologica,
     la Vita di Atanasio (36) presenta il protagonista
     come il fondatore dell'ortodossia,   
     persona in cui si riassume tutto l'insegnamento autentico delle età
     precedenti, e che riesce a far prevalere tale insegnamento contro   
     tutti i nemici, quelli all'interno della Chiesa ma soprattutto quelli   
     appartenenti alla sfera del potere imperiale. 
     
     Anche per il futuro, Atanasio diventa il fondatore della Chiesa
     egiziana nella sua conquistata individualità e consapevolezza, e   
     dunque il punto di riferimento per le lotte post-calcedonensi contro
     tutti coloro che potevano insidiare l'autonomia della Chiesa egiziana.  
     Egli diventa un simbolo dei martiri per la fede ortodossa: una volta
     finita la persecuzione di Diocleziano, subentrano altre prove   
     nei confronti dei successivi imperatori. La figura di Atanasio è   
     riproposta come ideale a cui riferirsi anche sotto questo aspetto.  
     
     Altri testi riguardano il vescovo Dioscoro, il perdente
     del concilio di Calcedonia, e dunque figura eminente
     della tradizione copta.
     La Vita di Dioscoro, attribuita a Teopisto, è pervenuta completa
     in traduzione siriaca, ma in copto sono conservati
     pochi frammenti, che comunque ne testimoniano
     la sua diffusione in ambiente egiziano (37).
     
     A Dioscoro stesso era attribuito un testo che,
     quale lo abbiamo oggi, è il risultato 
     della manipolazione di testi anteriori di varia provenienza,
     per costruire un'omelia del genere encomiastico sul
     vescovo-monaco Macario di Tkou (38). 
     Questa manipolazione non deve tuttavia essere molto tardiva:
     l'attribuiremmo al VI secolo. I testi da cui il redattore ha
     attinto erano: (a) un resoconto del viaggio del vescovo-monaco  
     Macario con Dioscoro a Costantinopoli per partecipare al
     concilio.  (b) Il resoconto dei disordini avvenuti al momento del
     ritorno a Gerusalemme di Giovenale, dopo Calcedonia. L'episodio 
     di Longino. La storia di Andragate. (c) Il resoconto 
     della visita di Papnute, personaggio 
     peraltro non meglio identificato, a Gangra, dove Disocoro è in 
     esilio. Vi è prima un dialogo fra Dioscoro e Papnute, poi la   
     narrazione del "martirio" di Macario.   
     
     La vita del famoso monaco Giovanni di Licopoli (Siout, Assiut)
     formava uno dei capitoli della Historia Monachorum che ci
     è rimasta nella traduzione latina di Rufino. Egli era
     morto una cinquantina d'anni prima del Concilio
     di Calcedonia, ma un redattore copto
     pensò bene di allungargli la vita, per farne
     un testimone degli eventi intorno al concilio (39). Venne
     dunque prodotto un testo, che comprende la traduzione
     copta del capitolo dell'Historia Monachorum, e una
     parte del tutto nuova, che tratta soprattutto dei rapporti
     (inventati) fra Giovanni e l'imperatore Marciano.
     
     Besa, il successore di Shenute a capo del Monastero
     Bianco (dunque dal 466), ne continuò l'opera
     letteraria riprendendone le capacità linguistiche
     e lo stile (40). La sua opera più conosciuta è 
     la Vita di Shenute, che è tuttavia consona non
     ai generi toccati appunto dal maestro, ma al nuovo
     gusto e alle nuove necessità. Essa è scritta naturalmente
     in modo agiografico, e tutt'altro che
     storicistico, e tuttavia fornisce interessanti
     indicazioni. Quanto rimane delle altre opere,
     Lettere e Catechesi, ha
     incontrato vari apprezzamenti (la caratterizzazione
     di un Besa di debole carattere nei confronti del
     dominatore Shenute è probabilmente solo una facile
     supposizione) e comunque si esaurisce come
     contenuto nella vita quotidiana dei monasteri con
     cui Besa era in contatto.
     
     Un gruppo di testi con caratteristiche assai simili
     riguarda i monaci egiziani che si sono opposti alle decisioni
     del concilio di Calcedonia, e sono stati naturalmente
     dimenticati dalla tradizione greca, in parte per
     motivi polemici, ma soprattutto perché la loro opera
     è stata circoscritta allo stretto ambiente egiziano.
     Essa ha tuttavia avuto una notevole importanza storica,
     in quanto ha preparato il terreno per la costituzione
     di una Chiesa propriamente "copta" (che si può datare
     al periodo di Damiano, fine VI sec.); e dunque sono
     importanti i testi copti che ci danno notizie su
     questi monaci. I testi sono purtroppo redatti con
     intenti anche ingenuamente apologetici, e sono pieni
     di racconti miracolistici e considerazioni che
     mettono a dura prova il nostro senso storico; ma
     aiutano se non altro a comprendere le caratteristiche
     dell'ambiente in cui i monaci si muovevano.
     
     La vita di Longino dell'Ennaton (41) è stata
     costruita a partire da alcuni apoftegmi preesistenti
     e da un episodio relativo ai rapporti fra Longino
     e Marciano, anch'esso preesistente. Il redattore
     ultimo ha riunito quel materiale, aggiungendo
     la storia di Longino precedente alla sua venuta
     in Egitto, e dando una struttura letteraria al
     tutto.
     
     Su Apollo, fondatore e archimandrita del monastero
     detto di apa Isaac, abbiamo un panegirico scritto da uno
     dei suoi successori, Stefano, poi divenuto vescovo di
     Hnes (Heracleopolis Magna) (42). Apollo fu prima archimandrita 
     del convento pacomiano principale,
     quello di Pboou, all'epoca di Giustiniano, e conobbe
     i grandi esponenti monofisiti della sua epoca, Severo
     di Antiochia e Teodosio di Alessandria. Essendo rimasto
     fedele alla tradizione di Dioscoro fu espulso dal
     convento, e dopo aver vagato per l'Egitto fondò un suo
     convento, detto di apa Isaac, presso Hnes, a Sud-est
     Faium. Qui fra l'altro si scontrò con una delle comunità
     meliziane che ancora in quell'epoca erano attive.
     Null'altro è noto della sua vita, ma il convento dovette
     acquistare grande importanza, come testimoniano le
     sue rovine, che sono state anche oggetto di parziali
     scavi archeologici.
     
     Matteo il Povero (43) fondò un monastero pacomiano presso Assuan,
     ma si distaccò dalla "casa madre" di Pboou, quando
     essa si conformò alla gerarchia alessandrina
     calcedonense. 
     
     Un altro testo di caratteristiche analoghe
     concerne Mosé di Beliana.
     Secondo la tradizione, Shenute avrebbe predetto
     la venuta di Mosé che avrebbe contribuito alla
     distruzione di centri ancora esistenti dedicati
     al culto pagano presso Abido. Qui infatti Mosé
     fondò il suo monastero, e avrebbe operato in
     contatto coi vescovi del luogo, che sono menzionati.
     Egli si sarebbe recato a Costantinopoli, contribuendo
     al ravvedimento dell'imperatore insieme con Severo
     di Antiochia e Teodosio di Alessandria. Al tempo
     dell'esilio egiziano di Severo, Mosé lo avrebbe
     accolto, ed avrebbe continuato a lottare contro i
     calcedonensi, influendo anche su magistrati locali.
     
     Manasse avrebbe fondato un monastero presso
     Abido, consacrato dal vescovo di Diospoli, ed
     avrebbe accolto dei rifugiati dai monasteri
     pacomiani divenuti calcedonensi. Egli avrebbe
     anche protetto la popolazione dalle scorrerie
     dei Mazici.
     
     Abraham, nato a Tberkjot (Farshut) da famiglia facoltosa,
     sarebbe divenuto monaco a Pbau, e quindi superiore
     di quel monastero, dunque dell'ordine pacomiano.
     Al tempo di Giustiniano si sarebbe recato a
     Costantinopoli per difendere la posizione anticalcedonense,
     con poca fortuna. Al suo ritorno fu costretto a
     lasciare Pbau, e quindi si recò al monastero di
     Shenute dove copiò le regole shenutiane, secondo le quali 
     fondò un suo monastero presso Tberkjot.
     
     
     
     5. La crisi araba. Risvolti politici e nazionali
     
     Dopo la crisi calcedonense, l'invasione araba (641 sgg.)
     segnò un'ulteriore e definitiva svolta nello svolgimento della
     letteratura copta (44). L'invasione persiana (616-628), 
     appena precedente, fu troppo breve per lasciare una traccia culturale.
     Al contrario, quella araba determinò una situazione che
     dura tutt'ora, all'interno della quale i copti si adattarono
     variamente, anche dal punto di vista culturale, a seconda 
     delle differenti circostanze storiche e politiche.
     
     Subito dopo la sconfitta dei Bizantini ed il loro
     abbandono dell'Egitto, i Copti si sentirono in qualche modo
     sollevati dal dominio religioso e culturale bizantino, 
     che a tratti era stato duro e brutale, e ripresero
     l'attività letteraria in lingua copta, soprattutto
     nei generi dell'omelia e dell'agiografia, che rispondevano
     alle nuove necessità della libera vita religiosa.
     La letteratura copta continuò e anzi fiorì nei primi
     tre secoli del dominio arabo (dal VII al IX); quiandi
     fu sostituita via via da quella in lingua araba, 
     anche presso i Cristiani.
     
     Di Beniamino di Alessandria, vescovo dal 621 al 662, abbiamo
     un'omelia scritta poco dopo l'invasione (45). In essa vi
     sono soltanto espressioni di soddisfazione per aver
     riacquistato la libertà di confessione, conculcata
     dai Calcedonensi: (par. 25) "Quando Dio ci liberò
     dai patimenti che erano su di noi per opera dell'empio
     e fiorì di nuovo la pace della Chiesa."
     Non vi è alcuna allusione esplicita agli arabi. Essi
     sono visti in sostanza come parte di un disegno
     favorevole della Provvidenza, evidentemente
     in attesa di nuovi eventi.
     
     Lo stesso si può vedere in due opere del successore,
     Agatone (662-680). Di esse, una è pervenuta intera
     (Sulla consacrazione del santuario di S. Macario) (46),
     e l'editore nota come "l'auteur... écrit ...
     vraisemblablement peu de temps après l'invasion arabe
     dans l'euphorie, semble-t-il, de la libération des
     tracasseries de la police byzantine et des entraves
     au culte monophysite" (p. 48).
     Anche nei frammenti dell'altra (Encomio di Beniamino) (47)
     troviamo polemiche dirette contro personaggi
     calcedonensi, ma nessuna contro gli arabi.
     
     A quanto sembra, questo stato di cose, o per meglio dire
     questa disposizione psicologica che trapassa nell'attività
     letteraria, perdura fin sotto Giovanni di Alessandria
     (680-688), che nel suo Encomio di Mena (48) si limita
     a ricordare come la conquista dell'Egitto da parte dei
     Saraceni ha messo fine al dominio del malvagio Eraclio.
     Del resto nelle sue Responsiones teologiche (49),
     raccolte da un suo diacono, non v'è alcun accenno
     all'Islam; ed egli invece partecipò ad una discussione
     con un Ebreo ed un Calcedonense, voluta e presenziata
     dall'Emiro Abd el Aziz. 
     
     Di Isaac, successore di Giovanni (688-693) non abbiamo
     opere letterarie; ma ci è giunta la sua Vita, scritta
     dal vescovo Mena di Pshati (Nikius), che rappresenta
     uno dei testi fondamentali in lingua copta relativi
     al problema dei rapporti fra copti ed arabi, ed in
     particolare fra l'Emiro Abd el-Aziz ed il Patriarca.
     Ricorderemo brevemente i principali episodi: al momento
     dell'elezione, essendoci due candidati (Isaac ed un certo
     Giorgio), la questione viene dibattuta alla presenza
     dell'emiro. Le relazioni fra Patriarca ed Emiro sono
     amichevoli, tanto che il Patriarca fu spesso ospite dell'Emiro,
     e costui fece costruire delle Chiese; sono varrati anche dei
     miracoli di cui Isaac è protagonista e Abd el-Aziz testimone.
     In alcuni casi, come quando l'Emiro invita a pranzo Isaac e vuole
     esser certo che egli non faccia il segno di croce prima
     di mangiare, Isaac se la cava con un sotterfugio.
     Finalmente, alla fine della vita di Isaac sorsero
     delle difficoltà, a causa dei rapporti fra la Chiesa copta
     e quelle della Nubia (dunque evidentemente timori da
     parte araba di interferenze ed interventi nubiani
     a favore dei cristiani d'Egitto), ma
     sembra che al momento siano state appianate.
     
     Come si vede, in tutto questo periodo l'intesa fra
     copti ed arabi, con qualche incrinatura e qualche difficoltà,
     si mantiene; ed è testimoniata anche un po' oltre
     (se ben vediamo) da un'omelia di Zaccaria, vescovo di
     Shou (Chois) e compagno di Isaac ai tempi in cui ambedue
     erano monaci a Sceti (51).
     In questa omelia si consolano i fedeli per la carestia e
     la pestilenza che vi furono attorno al 714; e, a meno che
     l'episodio lungamente commentato di Giona e dei Niniviti
     non nasconda allusioni alla situazione del tempo, non troviamo
     alcuna polemica religiosa, ma solo esortazioni di carattere morale.
     
     Tuttavia nel frattempo dovette nascere e affermarsi
     un modo nuovo di far letteratura, che ci testimonia 
     crescenti difficoltà nei rapporti fra i dominatori islamici
     e la Chiesa copta. Purtroppo questo fenomeno è stato sempre
     misconosciuto, proprio per le sue caratteristiche. Infatti
     una grande quantità di testi copti risulta attribuita
     falsamente ai grandi autori della Patristica, e
     d'altra parte non vi sono elementi elementi esterni che
     indichino se tali opere siano tradotte dal greco od originali;
     e tanto meno da quali autori ed in quale epoca sono state scritte.
     Per quei pochi testi che sono stati studiati, i critici si
     sono generalmente guardati dal proporre datazioni, ad
     eccezione dei testi agiografici, che tuttavia sono
     un caso molto particolare.
     
     Vari indizi interni ai testi, su cui non è possibile
     ora soffermarsi, portano a credere che quelle opere
     siano state composte quando la tradizione copta si
     era radicalmente staccata da quella greca.
     Per stabilire quanto tempo dopo, si deve riflettere 
     sul fatto che il distacco può
     essere iniziato qualche tempo dopo Calcedonia, cioè
     verso la fine del V secolo. Ci si chiede allora se
     gli elementi che si possono trarre dai testi giustificano
     una polemica da condurre contro i Bizantini, cioè i calcedonensi.
     
     Ebbene, noi possediamo parecchi testi nei quali è
     condotta una tale polemica, e la loro caratteristica
     è quella di essere per lo meno molto espliciti:
     i "cattivi", cioè i calcedonensi ed i loro sostenitori
     a livello politico, sono perfettamente individuati
     e chiamati col loro nome. Al contrario,
     nessun accenno preciso troviamo nei
     testi dei "cicli" agiografici.
     Si può pensare, è vero, che tali testi parlino della
     persecuzione di Diocleziano per pura continuazione
     tradizionale degli esempi anteriori; e che lo scopo
     per cui furono costruiti sia stato solo quello di
     dare lustro a questo o quel santuario.
     Noi tendiamo invece a credere che sotto questi
     testi debba nascondersi una polemica più precisa,
     ma che doveva necessariamente essere tenuta in qualche
     modo nascosta, cioè essere comprensibile solo agli iniziati.
     
     Poiché dunque dopo il VI secolo, cioè il periodo
     centrale della controversia calcedonense, abbiamo
     sùbito la conquista araba all'inizio del VII secolo,
     è ovvio domandarsi se questo, o meglio il peggiorato
     rapporto fra copti ed arabi, venuto a mutare la situazione
     relativamente pacifica descritta più sopra, non sia il 
     fattore storico fondamentale che ha determinato la composizione 
     di tali testi. In effetti possediamo un'omelia, scritta
     verso la metà dell'VIII secolo ed attribuita ad Atanasio
     di Alessandria (52), nella quale gli arabi sono dipinti
     come "un popolo feroce e senza misericordia nel suo
     cuore. Egli non avrà pietà dei vecchi nè risparmierà
     i bambini... E quel popolo governerà con grande svergognatezza
     tutti coloro che abitano sulla terra e li distruggerà
     e li renderà polvere e li spoglierà" (par. 51-52).
     
     E' probabile dunque che nella prima metà del VII 
     secolo sia iniziato un tipo di letteratura protetto
     dall'anonimato, che continuò almeno per l'VIII secolo.
     Non c'è motivo per ritenere che le
     opere per noi "anonime" della letteratura copta
     (quelle cioè il cui autore si è celato sotto un nome
     celebre per divulgare la propria produzione) rappresentino,
     almeno nella loro grande maggioranza, una produzione che
     avviene parallelamente alla produzione di opere il cui autore
     genuino è ben attestato: pensiamo sia al periodo
     post-calcedonense, sia al periodo iniziale del dominio arabo.
     Non può essere invece un caso che proprio nel momento
     in cui si rompe il delicato equilibrio che presiedeva
     ai rapporti fra Copti ed Arabi, la letteratura copta
     (che, non dimentichiamo, era tutta religiosa; ma proprio
     per ciò includeva nella manifestazione religiosa le altre
     manifestazioni della vita civile) scompare come letteratura
     "firmata", si fa cioè letteratura clandestina.
     
     Se la ricostruzione che abbiamo tracciato è corretta,
     saranno allora da ricercare in quei testi che formano
     dei "cicli" di leggenda agiografica o patristica, tutte
     le forme di polemica religiosa e politica che non potevano
     essere proclamate in modo esplicito.
     Esse vengono dunque camuffate in due modi: da un lato,
     attribuendo la paternità dei testi a prestigiose quanto
     antiche figure della letteratura ecclesiastica greca;
     dall'altro esercitando la polemica non direttamente, ma
     attraverso narrazioni di episodi più o meno miracolosi o
     attraverso asserzioni teologiche dirette contro falsi
     avversari (per lo più i giudei, come sembra), sotto
     cui del resto gli ascoltatori riconoscevano probabilmente
     con facilità il vero obiettivo, cioè
     l'Islam e la dominazione araba.
     
     E' evidente come, leggendo il gruppo di opere a cui
     facciamo riferimento attraverso un tale criterio, esse
     acquistano dei significati sia letterari sia storici che non
     erano evidenti sino ad ora, tanto che esse sono
     state per lo più trascurate come scarsamente interessanti.
     Noi pensiamo invece che esse si possano dimostrare delle
     fonti non disprezzabili per conoscere meglio la mentalità
     del loro tempo, cioè del vero periodo nel quale furono scritte.
     
     I cicli a cui abbiamo accennato si possono suddividere in due tipi 
     fondamentali: quello omiletico e quello agiografico. La 
     differenza sta semplicemente nel diverso genere 
     letterario usato nei due casi. I cicli omiletici sono 
     costituiti di testi redatti sotto forma di omelie; 
     quelli agiografici sotto forma di passioni di martiri. 
     Questi ultimi cicli sono conosciuti maggiormente, 
     e da più lungo tempo, soprattutto per merito degli studi 
     di Amélineau prima, e poi di Delehaye (53). Quelli omiletici 
     si vengono riconoscendo soltanto oggi, in quanto i 
     singoli testi sono spesso attribuiti falsamente ai più 
     noti padri del IV e V secolo, ed occorre uno studio 
     condotto su basi ampie per riunirli e datarli con 
     ragionevolezza.
     
     Sia per gli uni, sia per gli altri, il primo 
     criterio attraverso il quale riconoscere l'unità di un 
     ciclo (ad un determinato momento della tradizione) è 
     quello del contenuto, basato cioè soltanto sui 
     personaggi menzionati e sui fatti narrati. Ove questo 
     dia come risultato un ambiente narrativo unitario, le 
     opere in questione si definiscono come facenti parte di 
     quel determinato ciclo.
     Il riconoscimento di un ciclo non coincide del 
     tutto con l'assegnazione ad un autore unico, e nemmeno 
     ad un gruppo di autori coevi, nè ad una determinata 
     datazione. E' però il primo passo fondamentale per 
     cercare di risolvere questi problemi.
     
     Ciclo di Atanasio. Come si è visto, Atanasio fu la
     figura centrale della tradizione propriamente copta 
     (dopo Calcedonia), oltre che di quella egiziana in 
     generale. Egli era considerato insieme il fondatore 
     della Chiesa egiziana come entità autoctona ben 
     definita, ed il campione dell'ortodossia, di cui dunque 
     la Chiesa egiziana diventava la depositaria. 
     Perciò la tradizione letteraria copta dedicò 
     grande attenzione alla figura di Atanasio, creando 
     attorno ad essa un intreccio di fatti che, basati su 
     episodi storicamente attestati, diede presto luogo ad 
     una leggenda complessa ma abbastanza coerente. Di essa 
     facevano parte due esilii, uno in luoghi barbari e 
     solitari, l'altro all'interno dell'Egitto nascosto 
     presso monaci; rapporti con popolazione barbare 
     convertite al Cristianesimo; lotte con l'imperatore 
     Costanzo, ariano, con conseguenti tentativi di uccisione 
     evitati per intervento miracoloso. 
     
     Rientrano in questa prospettiva, oltre alla Vita
     di cui si è parlato prima, un Encomio 
     attribuito a Cirillo di Alessandria (54), ed
     alcune omelie, attribuite allo stesso Atanasio (55),
     generalmente di contenuto morale, ma che contengono 
     allusioni autobiografiche ai fatti sopra menzionati: 
     "Sull'omicidio, e per Michele arcangelo", dove 
     parla del suo esilio e di un suo soggiorno nel convento 
     di Pacomio, e di un altro soggiorno presso un anacoreta;
     "Agli Isaurici, esegesi di Lc. 11.5-9", dove si 
     parla dell'amicizia, di una visita al convento di 
     Pacomio, e di un episodio del Concilio di Nicea;
     "Sulla Pentecoste e sulla parabola del ricco e del 
     povero"; una "Esegesi di Lev. 21.9sgg., e sulla fine 
     del mondo", dove sotto forma di profezia si parla della 
     dominazione araba dell'Egitto (cf. sopra). 
     
     Il ciclo di Cirillo di Gerusalemme (56)
     è costituito da alcune omelie che dovevano 
     aggiungersi alle 18 Catechesi (autentiche), formando i 
     numeri 19, 20 e 21; inoltre da qualche altro testo 
     aggiunto. Questo ciclo sembra essere originato da un 
     interesse per l'ambiente di Gerusalemme e per un certo 
     tipo di apocrifi che ne venivano fatti derivare. 
     Troviamo così un "Commentario sulla Passione" (diviso in due omelie), 
     in cui si commenta il relativo brano del Vangelo di 
     Giovanni, ma si fanno anche altri excursus, fra cui uno 
     sulla Vergine (da mettere in relazione con le omelie 
     seguenti); un'omelia "In lode della 
     Croce", in cui sono inseriti molti 
     episodi leggendari, del tempo della Crocifissione e poi 
     di tempi successivi (Eusignio; la Croce luminosa; etc.);
     un'omelia "In onore della Vergine", 
     in cui è inserita la narrazione della fanciullezza della 
     Vergine, e poi della dormitio.
     Altre omelie sembrano essersi aggiunte più tardi a 
     questo ciclo: due ulteriori "Sulla Passione e 
     Resurrezione" (inedite); una detta 
     anch'essa "Sulla Passione", che in realtà nasconde un 
     apocrifo con rivelazione del Risorto ai discepoli.
     
     Teofilo, successore di Atanasio, dovette avere presso i copti 
     la reputazione di grande distruttore di monumenti 
     pagani. Per questo la sua leggenda (costruita del resto 
     sulla base di alcune frasi degli storici ecclesiastici) 
     parla della scoperta di grandi tesori nelle rovine di 
     alcuni templi che egli aveva distrutto, con cui 
     intraprende la costruzione o l'ornamento di chiese in 
     onore di diversi santi (57).
     
     Il suo ciclo era perciò costituito (per quanto è 
     dato di ricostruirlo) di un'omelia sulla distruzione del 
     Serapeum e sulla costruzione del Martyrion del Battista;
     di un'omelia sulla costruzione 
     della Chiesa della Vergina al monte Kos (Qusqam); di 
     un'omelia sulla costruzione della Chiesa per le reliquie 
     dei Tre Santi di Babilonia; di un'omelia sulla 
     costruzione di una Chiesa in onore di Raffaele arcangelo 
     nell'isola di Patres.
     
     La fama di Giovanni Crisostomo, presso la più tarda tradizione 
     copta, è legata alla sua disputa con l'imperatrice 
     Eudossia, in seguito alla quale (lasciando in ombra 
     l'operato di Teofilo di Alessandria) egli morì in 
     esilio. Un'omelia anonima sulla Vita di Crisostomo (58)
     sembra alla base del ciclo sviluppato su quel tema; ad 
     essa sono collegate un'omelia attribuita a Eustazio di 
     Tracia In onore di Michele arcangelo, ed una 
     attribuita a Proclo di Costantinopoli In onore
     dei 24 Vegliardi, che si riferiscono agli stessi 
     avvenimenti, con variazioni romanzesche.
     
     Un ampliamento del tema si ebbe con l'introduzione 
     della figura di Demetrio di Antiochia (59), il vescovo 
     che avrebbe consacrato presbitero Giovanni. A lui allude 
     un'omelia attribuita allo stesso Giovanni In onore di 
     Vittore martire; ed a lui direttamente sono attribuite 
     alcune omelie di carattere agiografico, del resto non 
     strettamente connesse al ciclo.
     
     Ciclo di Basilio di Cesarea (60). Parecchie omelie autentiche 
     di Basilio erano state tradotte in copto 
     nell'epoca "classica" delle traduzioni 
     Ma più tardi si volle costruire, 
     probabilmente per propaganda nei confronti degli arabi, 
     la figura di un Basilio difensore della Cristianità 
     contro i barbari. Si produssero così alcune omelie (ne 
     sono pervenute a noi solo due) ambientate nella regione 
     della Lazica (Georgia; ma probabilmente il nome vale per 
     una regione fantastica), in cui si celebra la 
     liberazione della regione dai barbari Sarmati con 
     l'aiuto di Michele arcangelo.
     
     Ciclo di Evodio di Roma: Secondo la normale tradizione, 
     che doveva apparire anche nella Historia Ecclesiastica 
     copta, il successore di Pietro a Roma fu Lino. Ma 
     i copti vollero attribuire ad un Evodio di Roma, figura 
     ripresa da quella di Evodio, successore di Pietro ad 
     Antiochia, almeno tre omelie il cui contenuto comprende 
     narrazioni apocrife più antiche, che erano circolate 
     senza autore, e comunque necessitavano di un'autorità 
     antica (61). La prima tratta della Passione, e comprende un 
     interessante episodio relativo ad Ebrei a Roma all'epoca 
     di Claudio; la seconda tratta della Dormitio Virginis; 
     la terza degli Apostoli.
     
     Nella costruzione di tutti questi cicli, lo 
     spunto per il soggetto generale e per le narrazioni è dato da
     episodi e personaggi reali, che però appaiono filtrati attraverso
     la tradizione culturale copta ed avere quindi solo lontani legami
     con la realtà storica. La trama delle narrazioni e le considerazioni
     che le accompagnano rispondono a scopi e mentalità diversi
     da quelli pensabili nell'epoca in cui i fatti si svolsero ed i
     personaggi realmente vissero.
     
     Gli scopi per cui i testi furono composti sono prima di
     tutto propagandistici, ma a vari livelli. A livello interno, per
     fortificare la fede del popolo nella tradizione della Chiesa copta,
     e rafforzare e raddrizzare i sentimenti ed i costumi morali.
     A livello esterno, per affermare il pieno diritto di esistenza
     e l'antichità e ortodossia della dottrina della Chiesa
     copta in confronto a quelle separate. Inoltre per difendere la
     dottrina cristiana nei confronti delle religioni rivali, giudaica ed
     islamica.  Inoltre vi era uno scopo di intrattenimento spirituale, al
     quale rispondeva lo stile enfatico e sovrabbondante, evidentemente
     gradito alla folla, ed il racconto dei più amabili o truci o
     meravigliosi episodi che la fantasia potesse immaginare.
     
     I testi spesso introducevano personaggi ed episodi già noti al
     pubblico, presenti in analoghi testi (ma peraltro inventati di
     sana pianta), affinché il pubblico potesse automaticamente
     sentirsi a suo agio e nello stesso tempo essere rafforzato
     nella fiducia da dare agli episodi ed ai loro impliciti insegnamenti.
     I testi erano prodotti spesso facendo uso di opere preesistenti,
     modificate in modo da aderire allo scopo del redattore,
     ed unite, quando necessario, con altri brani scritti appositamente
     ed originali. Questo fa sì che all'interno di queste omelie
     possano essere tramandati brani provenienti da vecchie
     traduzioni di testi genuini dei Padri del IV-V secolo.
     
     Le cause pratiche che hanno determinato la produzione
     di tali opere sono probabilmente due. 1. La necessità di
     rinnovare una letteratura ecclesiastica troppo legata all'ambiente
     greco-internazionale, e dunque dopo la separazione dalla Chiesa
     ufficiale imperiale vista sempre con qualche sospetto.
     2. La necessità di agire clandestinamente, prima a causa
     delle persecuzioni dei Calcedonensi, ma poi soprattutto degli
     arabi, che erano disposti a "proteggere" la vita delle comunità
     religiose dei paesi conquistati, a patto che ciò non comportasse
     la fabbricazione di prodotti nuovi, sia architettonici sia
     letterari.
     
     NOTE.
     
     Nota preliminare: Diamo qui i riferimenti bibliografici
     essenziali. Per ogni altra indicazione rimandiamo
     a: Coptic Bibliography (I, Numerical List; II, Yearly
     Edition: Indexes etc.), Roma, CIM.
     
     1. Cf. Eva A. E. REYMOND, A Contribution to a Study of Egyptian 
     Literature in Graeco-Roman Times, "Bulletin of the John Rylands 
     Library" 65 (1983) 208-229; id., Demotic Literary Works of 
     Graeco-Roman Date in the Rainer Collection of Papyri in Vienna,
     in: AA VV, Festschrift... Papyrus Erzherzog Rainer, p. 42-60, 
     Wien, Oesterreichische Nationalbibliothek, 1983.
     
     2. Ampie considerazioni su questo problema si trovano in
     Tito ORLANDI, Egyptian Monasticism and the Beginnings of the 
     Coptic Literature, in: P. NAGEL (ed.), Carl-Schmidt-Kolloquium 
     an der Martin-Luther-Universitat 1988, p. 129-142, Halle, 
     Martin-Luther-Universitat, 1990. 301 p.; id., Le traduzioni
     dal greco e lo sviluppo della letteratura copta, in: P. NAGEL 
     (ed.) Graeco-Coptica, p. 181-203, Halle, Martin-Luther-Univers., 
     1984 (Wiss. Beitrage 48).
     
     3. Louis Theophile Lefort, La litterature egyptienne aux derniers 
     siecles avant l'invasion arabe, "Chronique d'Egypte", 6 (1931) 315-323; 
     Georg STEINDORFF, Bemerkungen uber die Anfange der koptischen 
     Sprache und Literatur, in: AA VV, Coptic Studies in Honor of W. E. 
     Crum (Misc. CRUM), p. 189-214, Boston, Byzantine Institute, 1950;
     Carl SCHMIDT, Die Urschrift der Pistis Sophia, "Zeitschrift fur
     Neutestamentliche Wissenschaft" 24 (1925) 218-240.
     
     4. Cf. Ewa WIPSZYCKA, La christianisation de l'Egypte aux IVe-VIe 
     siecles. Aspects sociaux et ethniques, "Aegyptus" 68 (1988) 117-166;
     Id., La valeur de l'onomastique pour l'histoire de la christianisation 
     de l'Egypte. A propos d'une etude de R. S. Bagnall, "Zeitschr. fur
     Papyrologie und Epigraphik" 62 (1986) 173-181; Annik MARTIN, L'Eglise 
     et la khora egyptienne au 4e siecle, "Revue des etudes 
     augustiniennes" 25 (1979) 3-26; Id., Aux origines de l'Eglise Copte:
     l'implantation et le developpement du Christianisme en Egypte
     (Ie-IVe siecles), "Revue des etudes anciennes" 83 (1981) 35-56;
     Id., Les premiers siecles du christianisme a Alexandrie. Essai 
     de topographie religieuse (IIIe et IVe siecles), "Revue des Etudes 
     Anciennes" 30 (1984) 211-225.
     
     5. Cf. Roger REMONDON, L'Egypte et la supreme resistance au 
     christianisme (5e-7e siecles), "Bull. de l'Institut Francais
     d'Archeologie Orientale" 51 (1952) 63-78.
     
     6. Cf. Antoine GUILLAUMONT, Esquisse d'une phenomenologie du 
     monachisme, "Numen" 24 (1978) 40-51; Id., Aux origines du monachisme 
     chretien. Pour une phenomenologie du monachisme, Begrolles, Abbaye 
     de Bellefontaine, 1979, 243 p., (Spiritualite orientale), 30;
     Theofried BAUMEISTER, Die Mentalitat des fruhen agyptischen 
     Monchtums. Zur Frage der Ursprunge des christlichen Monchtums, 
     "Zeitschr. fur Kirchengeschicte" 88 (1977) 145-160.
     
     7. Karl HEUSSI, Der Ursprung des Monchtums, Tubingen, Mohr (Siebeck) 
     1936, XII 308 p. (Repr. Aalen, Scientia, 1981); Derwas James CHITTY, 
     The Desert a City. An Introduction to the Study of Egyptian and 
     Palestinian Monasticism under the Christian Empire, Oxford, Basil 
     Blackwell, 1966, 222 p.; Garcia M. COLOMBAS, El monacato primitivo. 
     1. Hombres hechos cotumbres institutiones, Madrid, Ed. Catolica, 
     1974, XIX 376 p., 2. La Spiritualidad, Madrid, Ed. Catolica, 1975, 
     XII 398 p., (Biblioteca de Autores Cristianos).
     
     8. Ludwig von HERTLING, Antonius der Einsiedler, Innsbruck 1929
     (Forschungen zur Geschichte des innerkirchlichen Lebens 1); Lisa 
     CREMASCHI, S. Atanasio, Vita di Antonio, apoftegmi, lettere, Roma, 
     Edizioni Paoline, 1984 (Letture cristiane delle origini, 19)
     
     9. Samuel RUBENSON, The Letters of St. Antony. Origenist Theology, 
     Monastic Tradition and the Making of a Saint, Lund, University 
     Press, 1990. 222 p. (Bibliotheca Historico-Ecclesiastica Lundensis, 24).
     
     10. Guerric COUILLEAU, La liberté d'Antoine, in: Jean GRIBOMONT 
     (ed.), Commandements du Seigneur et libération évangélique, 
     p. 13-46, Roma, Anselmiana, 1977. 322 p., (Studia Anselmiana 70). 
     
     11. Hugh Gerard EVELYN-WHITE, The Monasteries of the Wadi 'n 
     Natrun. 2. The History of the Monasteries of Nitria and of Scetis, 
     New York, Metropolitan Museum Publications, 1932; 
     AA VV, Les Kellia, ermitages coptes en Basse-Egypte, Geneve, 
     Editions du Tricorne, 1989.
     
     12. AA VV, EK8184. Survey archeologique des 
     Kellia (Basse-Egypte), Louvain, Peeters, 1983, 2 Voll. XIV 558 XII 332 P.
     
     13. Heinrich BACHT, Pachome (Saint), in: Dictionnaire de Spiritualite 
     12.1, col. 7-16, Paris, Beauchesne, 1984; Das Vermachtnis 
     des Ursprungs. Studien zum fruhen Munchtum. II Pachomius: der 
     Mann und sein Werk, Wurzburg, Echter, 1983, 326 p. (Studien zur 
     Theol. des geistl. Lebens 8); Armand VEILLEUX, Pachomian Koinonia, 
     Life, Rules and Other Writings of Saint Pachomius and his Disciples, 
     Kalamazoo MI, Cistercian Pulications, XXX 493 p., 1981 239 p., 
     1982 IX 313 p.; Lisa CREMASCHI, Pacomio e i suoi discepoli. Regole 
     e scritti, Magnano, Edizioni Qiqajon (Comunita di Bose), 1988, 469 p.
     
     14. Theofried BAUMEISTER, Der aktuelle Forschungsstand zu den 
     Pachomiusregeln, "Munchener Theologische Zeitschrift"
     40 (1989) 313-322; Lisa CREMASCHI (cit. alla nota 13).
     
     15. Frederik WISSE, Gnosticism and Early Monasticism in 
     Egypt, in: B. ALAND (ed.) Gnosis, (Misc. Jonas), Gottingen, 1978;
     Clemens SCHOLTEN, Die Nag-Hammadi-Texte als Buchbesitz der 
     Pachomianer, "Jahrb. fur Antike und Christentum" 31 (1988) 144-172.
     Contra: Armand VEILLEUX, Monachisme et gnose. Premiere partie: 
     le cenobitisme pachomien et la bibliotheque copte de Nag 
     Hammadi, "Laval Theol. et Philos." 40 (1984) 275-294, 
     Deuxieme partie: contacts litteraires et doctrinaux entre 
     monachisme et gnose, "Laval Theologique et Philosophique" 41 (1985) 3-24.
     
     16. T. ORLANDI -  A. CAMPAGNANO, Vite dei monaci Phif e 
     Longino, Milano, Cisalpino Goliardica, 1975, 110 p. (Testi e documenti, 
     Serie copta, 51);
     Rene-Georges COQUIN, Apollon de Titkoo ou/et Apollon de Bawit?, 
     "Orientalia" 46 (1977) 435-446; Jean GASCOU, Documents grecs relatifs 
     au monastere d'abba Apollos de Titkois, "Anagennesis" 1.2 (1981) 219-230.
     
     17. Tito ORLANDI, Paolo di Tamma, Opere, Roma, CIM, 1988, 197 p., 
     4 microfiche. 
     
     18. Johannes LEIPOLDT, Schenute von Atripe und die Entstehung 
     des national Agyptischen Christentums, TU 25.1, Leipzig, Hinrich, 
     1903, 213 p.; Tito ORLANDI, Shenoute d'Atripe, in: Dictionnaire 
     de Spiritualite, t. XIV, coll. 797-804, Paris, Beauchesne, 1989.
     
     19. Sulla storia dell'origenismo cf. 
     Antoine GUILLAUMONT, Les "Kephalaia gnostica" d'Evagre le Pontique 
     et l'histoire de l'Origenisme chez les Grecs et les Syriens, Paris, 
     Seuil, 1962, 366 p.
     
     20. Cf. Manlio SIMONETTI, Asiatica (cultura), in: Dizionario
     Patristico e di Antichità Cristiane, I, Casale Monferrato,
     Marietti, 1983, col. 414-416.
     
     21. T. ORLANDI, A. CAMPAGNANO, Vite di monaci copti, Roma, Citta 
     Nuova, 1984, 298 p. (Collana di Testi Patristici).
     
     22. Stuart George HALL, Melito of Sardis, On Pascha and Fragments, 
     Oxford, Clarendon Press, 1979, L 99 p. (Oxford Early Christian Texts).
     
     23. Il codice papiraceo è ancora inedito. Cf. 
     James E. GOEHRING, A New Coptic Fragment of Melito's Homily 
     On the Passion, "Le Museon" 97 (1984) 255-259; Enzo LUCCHESI, 
     Deux nouveaux temoins coptes du "Peri Pascha" de Meliton de Sardes, 
     "Analecta Bollandiana" 102 (1984) 383-393; Id., Encore un temoin 
     copte du "Peri Pascha" de Meliton de Sardes, "Vigiliae
     Cristianae" 41 (1987) 290-292.
     
     24. Sulla controversia pasquale la bibliografia è vasta, e
     basterà rimandare agli articoli nelle Enciclopedie. Per
     quanto riguarda direttamente il nostro tema, cf. 
     Carl SCHMIDT, Gesprache Jesu mit seine Jungern nach der Auferstehung, 
     (TU 43), Leipzig, Hinrichs, 1919, 731 83 p.: p. 622 sgg.
     
     25. Edizione in: Ernest Alfred Thompson WALLIS BUDGE, Coptic 
     Homilies in the Dialect of Upper Egypt, London, British Museum, 
     1910, LV 424 p.: p. 115-132. Cf. Othmar PERLER, Recherches sur le 
     Peri Pascha de Meliton, "Revue des Sciences Religieuses" 51 (1963) 407-421.
     
     26. Edizione in Budge (cit. alla nota 25), p. 105-114.
     
     27. Su Apollo e Paolo, cf. sopra, note 16 e 17.
     
     28. Edizione: Francesco ROSSI, Trascrizione di tre manoscritti 
     copti del Museo Egizio di Torino, "Mem. Acc. Scienze Torino", 
     II.37 (1885).
     Traduzione italiana in: T. ORLANDI, A. CAMPAGNANO, Vite di monaci copti, 
     Roma, Citta Nuova, 1984, 298 p. (Collana di Testi Patristici, 41),
     p. 55-65; cf. Id.,La cristologia nei testi catechetici copti,
     in: Sergio FELICI (ed.), Cristologia e catechesi patristica, 
     1, p. 213-229, Roma, LAS, 1980. 264 p. (Biblioteca di Scienze 
     Religiose 31).
     
     29. Tito ORLANDI, Il dossier copto di Agatonico di Tarso. Studio 
     letterario e storico, in: D. W. YOUNG (ed.), Studies Presented 
     to H.J. Polotsky, p. 269-299, Beacon Hill MS, Pirtle Polson, 1981.
     Edizione del testo: Walter Ewing CRUM, Der Papyruscodex Saec. 
     VI-VII der Phillipps-Bibliothek in Cheltenham. Koptische theologische 
     Schriften, Strassburg, Trubner, 1915, 171 p. (Schriften der Wiss. 
     Gesellsch. in Strassburg, 18).
     
     30. Cf. Tito ORLANDI, Due fogli papiracei da Medinet Madi (Fayum):
     L'Historia Horsiesi, "Egitto e Vicino Oriente", 14 (1991) ***. Edizione
     del testo in Crum, cit. alla nota 29.
     
     31. Louis Theophile LEFORT, Catechese christologique de Chenoute, 
     "Zeitschrift fur Aegyptische
     Sprache" 80 (1955) 40-45; Cf. Orlandi, La cristologia..., citato alla nota 28.
     
     32. Edizione: Tito ORLANDI, Shenute contra Origenistas, Roma, CIM, 
     1985, 143 p.. Cf. Aloys GRILLMEIER, "La peste d'Origene". Soucis du patriarche 
     d'Alexandrie dus a l'apparition d'origenistes en Haute Egypte, in: 
     AA VV, Alexandrina. Melanges... Mondesert, p. 221-237, Paris, 
     Cerf, 1986; Herbert THOMPSON, Dioscorus and Shenoute, "Bib. Ecole 
     Hautes Etudes" 234 (1922) 367-376.
     
     33. S. J. GRILLMEIER - Heinrich BACHT, Das Konzil von Chalkedon: 
     Geschichte und Gegenwart, 3 vols., Wurzburg 1951;
     Jean MASPERO (A. Fortescue, G. Wiet), Histoire des Patriarches 
     d'Alexandrie, depuis la mort de l'empereur Anastase jusqu'a 
     la reconciliation des eglises jacobites (518-616),
     Paris, 1923.
     
     34. Tito ORLANDI, Storia della Chiesa di Alessandria, 
     (Testi e Docum. per lo Studio dell'Antichita 17 31), 
     Milano 1968, 1970; D. W. JOHNSON, Further Fragments of 
     a Coptic History of the Church, "Enchoriai" 6 (1976) 7-18;
     Tito ORLANDI, Nuovi frammenti della Historia Ecclesiastica 
     copta, in: AA VV, Studi in onore di Edda Bresciani, p. 363-384,
     Pisa 1985; Friedhelm WINKELMANN, Die Kirchengeschichtswerke 
     im ostromischen Reich, in: "Byzantinoslavica" 37 (1976) 
     1-10 e 172-190; Heinzgerd BRAKMANN, Eine oder zwei koptische 
     Kirchengeschichte?, in: "Le Muséon" 87 (1974) 129-142).
     
     35.  Johannes Den HEIJER, Mawhub Ibn Mansur et l'historiographie 
     copto-arabe. Etude sur la composition de l'Histoire des Patriarches 
     d'Alexandrie, Louvain, Peeters, 1989. XX 238 p. 
     (CSCO 513 = Subsidia 83).
     
     36. Tito ORLANDI, Testi copti. 1. Encomio di Atanasio, 2. Vita 
     di Atanasio, (Testi e documenti per lo studio dell'antichita, 
     21), Milano, 1968. 
     
     37. Walter Ewing CRUM, Coptic Texts Relating to Dioscorus 
     of Alexandria, "Proc. Soc. Biblical Arch." 25 (1903) 267-276;
     Eric O. WINSTEDT, Some Munich Coptic Fragments, "Proc. Soc. 
     Biblical Arch." 28 (1906) 137-142; F. N. NAU, Histoire 
     de Dioscore..., "Journal Asiatique" X 1 (1903) 5-108 & 241-310 
     
     38. Edizione: Dwight W. JOHNSON, A Panegyric on Macarius Bishop of 
     Tkow Attributed to Dioscorus of Alexandria, (CSCO 
     415-416), Louvain 1980. Traduzione italiana: Tito ORLANDI, Omelie 
     copte, (Corona Patrum), Torino 1981 p. 162-198.
     
     39. Paul DEVOS, Fragments coptes de l'historia monachorum 
     (vie de S. Jean de Lycopolis BHO 515), 
     "Analecta Bollandiana" 87 (1969) 417-440; 
     Id., Saint Jean de Lycopolis et l'empereur Marcien. A Propos 
     de Chalcedoine, AB 94 (1976) 303-316.
     
     40. Johannes LEIPOLDT, Sinuthii vita bohairice, (CSCO 41), 
     Louvain 1951 (Rist. dell'ed. 1906); K. Heinz KUHN, Letters and 
     Sermons of Besa, Louvain 1956 (CSCO 157 158).
     
     41. T. ORLANDI, A. CAMPAGNANO, Vite dei monaci Phif e 
     Longino (Testi e documenti, Serie Copta, 51), Milano 1975.
     
     42. K. Heinz KUHN, A Panegyric on Apollo Archimandrite of 
     the Monastery of Isaac by Stephen Bishop of Heracleopolis Magna
     (CSCO 394 395), Louvain 1978
     
     43. Sui testi relativi a Matteo il Povero, Mosé, Manasse, 
     e Abraham cf. Antonella CAMPAGNANO, Monaci egiziani fra V e VI 
     secolo, "Vetera Christianorum" 15 (1978) 223-246.
     
     44. Stanley LANE-POOL, A History of Egypt in the Middle
     Ages, London 1925(4) (rist. 1968); Tito ORLANDI, Koptische 
     Kirche, Theol. Real-Encyclopadie 19 p. 595-608, 
     Berlin New York, de Gruyter, 1989;
     Alfred Joshua BUTLER, The Arab Conquest of Egypt and the Last 
     Thirty Years of the Roman Dominion, Oxford, The Clarendon 
     Press, 1902.
     
     45. C. Detlef G. MULLER, Die Homilie uber die Hochzeit zu Kana 
     und weitere Schriften des Patriarchen Benjamin I. von Alexandrien, 
     (Abhandlungen Heidelberger Akad., 1968, 1), Heidelberg, Winter, 
     1968. Traduzione italiana: Tito ORLANDI, Omelie copte, Torino, SEI, 
     1981, 320 p., (Corona Patrum).
     
     46. Rene George COQUIN, Livre de la consecration du sanctuaire de Benjamin
     (Bibliotheque d'Etudes Coptes 13), Le Caire, IFAO, 1975.
     
     47. Heinzgerd BRAKMANN, Zum Pariser Fragment angeblich des koptischen
     Patriarchen Agathon. "Le Museon" 93 (1980) 299-309.
     
     48. James DRESCHER, Apa Mena. A Selection of Coptic Texts 
     Relating to St. Menas (Textes et documents), Le Caire, Societe d'arch. 
     copte, 1946, XXXVI 186 p.
     
     49. Arnold Van LANTSCHOOT, Les "Questions de Theodore". Teste 
     sahidique, recensions arabes et ethiopienne, Citta del Vaticano, 
     Bibl. Ap. Vat., 1957, VIII 302 p. (Studi e Testi, 192).
     
     50. Emile PORCHER, Vie d'Isaac Patriarche d'Alexandrie de 686 a 689, 
     ecrite par Mina, eveque de Pchati, PO 11, p. 300-390, Paris, 1915;
     David N. BELL, Mena of Nikiou. The Life of Isaac of Alexandria & 
     the Martyrdom of Saint Macrobius. Introduced, Translated, and 
     Annotated, Kalamazoo, Cistercian Publications, 1988. VIII 147 p.
     (Cistercian Studies Series, 107).
     
     51. Henri de VIS, Homelies coptes de la Vaticane. Texte copte 
     publie et traduit, Kobenhavn, Gyldendal, vol. 1, 1922, 220 p., 
     vol. 2, 1929, 315 p. (Coptica 1, 5).
     
     52. Tito ORLANDI, Omelie copte, Torino, SEI, 1981, 320 p. 
     (Corona Patrum). Id., Un testo copto sulla dominazione araba 
     in Egitto, in: T. ORLANDI, F. WISSE (ed.), Acts of the Second 
     Int. Congress of Coptic Studies, p. 225-234, Roma, CIM, 1985.
     
     53. Emile Clement AMELINEAU, Les Actes des martyrs de l'Eglise 
     copte, Paris, Leroux, 1890, 313 p.; Hippolytus DELEHAYE, Les 
     martyrs d'Egypte, "Analecta Bollandiana" 40 (1922) 5-154, 299-364.
     
     54. TITO ORLANDI, Testi Copti. 1. Encomio di Atanasio, 2. Vita 
     di Atanasio, Milano, Cisalpino, 1968, 161 p., "Testi e documenti 
     per lo studio dell'antichita 21".
     
     55. Queste omelie sono inedite, ma tradotte in Orlandi, cit.
     alla nota 52.
     
     56. Tito ORLANDI, Cirillo di Gerusalemme nella letteratura 
     copta, "Vetera Christianorum" 9 (1972) 93-100; 
     Antonella CAMPAGNANO, Ps. Cirillo di Gerusalemme. Omelie 
     copte sulla Passione, sulla Croce e sulla Vergine, Milano, 
     Cisalpino, 1980, 214 p. (Testi e documenti per lo studio 
     dell'antichita, Serie Copta, 65).
     
     57. Tito ORLANDI, Theophilus of Alexandria in Coptic Literature, 
     in: E.A. LIVINGSTONE (ed.), Studia Patristica XVI (TU 129) 
     p. 100-104, Berlin, Akademie, 1985.
     
     58. A. CAMPAGNANO, A. MARESCA, T. ORLANDI, Quattro omelie 
     copte. Vita di Giovanni Crisostomo, Encomi dei 24 Vegliardi 
     (Ps. Procle e Anonimo), Encomio di Michele Arcangelo di 
     Eustazio di Tracia, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1977, 
     189 p. (Testi e documenti per lo Studio dell'Antichita, Serie 
     Copta, 60).
     
     59. Tito ORLANDI, Demetrio di Antiochia e Giovanni Crisostomo, 
     Acme 23 (1970) 175-178.
     
     60. Tito ORLANDI, Basilio di Cesarea nella letteratura copta, 
     "Rivista degli Studi Orientali" 49 (1975) 49-59.
     
     61. Francesco ROSSI, Trascrizione con traduzione italiana 
     di un testo copto del Museo Egizio di Torino, "Mem. Acc. 
     Scienze Torino", II.42 (1892) 107-252; Paul Anton De LAGARDE, 
     Aegyptiaca, Gottingae, 1883, 296 p. - Ambedue le omelie
     meriterebbero una riedizione. L'omelia sugli apostoli è
     inedita.