CONVEGNO: SPIRITUALITA' DEL LAVORO NELLA CATECHESI DEI PADRI DEL III-IV SECOLO TITO ORLANDI Il lavoro nella primitiva letteratura monastica copta. Presentazione. Prima di affrontare il tema che mi propongo di trattare, è opportuno premettere alcune precisazioni, di cui dovrebbe sempre tener conto chi sfrutta la documentazione copta in vista di temi generali (Orlandi 1984(1), Introduzione). Per "letteratura monastica copta" è facile intendere quella parte della letteratura monastica che ci è pervenuta in lingua copta. Ma che significato avrebbe trattare questa letteratura come se fosse isolata o comunque autonoma rispetto alla contemporanea letteratura in lingua greca? L'ambiente monastico egiziano è spiccatamente bilingue; ed inoltre parecchie opere che oggi sono conservate soltanto in copto sono delle traduzioni di testi greci. Dunque si dovrà sempre tener presente piuttosto un ambiente monastico egiziano (questo sì con caratteristiche individuali), a sua volta in relazione con l'ambiente monastico internazionale e con il più vasto mondo della cultura cristiana. Tale ambiente ha prodotto una sua letteratura, che ci fornirà i lumi che qui chiediamo, relativi alla spiritualità del lavoro. Questa letteratura potrà essere indifferentemente (entro certi limiti di cui parleremo) in lingua greca ed in lingua copta, onde le opere nell'una e nell'altra lingua riceveranno mutualmente dei chiarimenti. Mi sembra che solo così si cominci a delineare il contributo che il coptologo può dare al tema proposto. E' chiaro che siamo di fronte ad una separazione, giustificabile praticamente anche se non teoricamente, di specializzazione di ricerca. E' difficile che le qualifiche di patrologo greco e di coptologo possano andare insieme; ed il coptologo è chiamato a dare il suo contributo collaterale, senza invasione di campi ma con coscienza della loro interconnessione. Si tratta di una collaborazione necessaria sotto il profilo 1 operativo nell'organizzazione degli studi come oggi si è venuta formando. Essa tuttavia apre la strada ad una considerazione più pertinente dal punto di vista dell'oggetto studiato. La suddivisione fra greco e copto rispecchia anche una suddivisione di tradizione, sia manoscritta sia culturale, che posteriormente al V secolo si è venuta attuando per un intreccio di motivi teologici, spirituali, nazionali, politico-ecclesiastici. Per questo la tradizione specificamente copto-egiziana ci restituisce talora opere di carattere parzialmente differente a quelle della tradizione greca, anche se in origine tali opere appartenevano ad un medesimo ambiente, e forse non avevano neppure una divisione di lingua. Ne consegue che le opere oggi in lingua copta possono contribuire a dare una migliore e più ampia conoscenza di quell'ambiente, rispetto ad opere che sono state tramandate nell'ambito della tradizione greca forse a causa di alcune soltanto delle caratteristiche, che maggiormente interessavano quella tradizione. Per fare subito un esempio concreto, è noto come la raccolta degli Apophthegmata Patrum venga utilizzata in maniera preponderante, e ____________________ talora addirittura esclusiva, per le ricostruzioni dell'ambiente monastico egiziano. Ebbene, anche senza accedere a recenti ipotesi sull'origine non egiziana della raccolta come tale (Regnault 1981), sarebbe comunque opportuno che si cercasse di fare sempre una critica preliminare all'utilizzazione, per domandarsi se realmente tutto quanto si trova in quella raccolta cosituisca un documento obiettivo ed esaustivo sulla situazione egiziana. E' interessante notare, a questo proposito, che simili cautele sono assai più presenti agli studiosi, quando essi utilizzano la documentazione di opere come l'Historia Lausiaca, o l'Historia Monachorum, o le Collationes di Cassiano, più scopertamente, ma forse non maggiormente "internazionali" nella loro concezione e redazione. Da questo stesso punto di vista, ma con esito diciamo così opposto, è lecito ampliare l'ambito cronologico, studiando le fonti copte, perché la conservatività tipica delle tradizioni provinciali e periferiche può restituirci punti di vista validi in situazioni di alcuni decenni più antiche. Ambienti monastici egiziani. Varrà dunque la pena di presentare prima di tutto il panorama dell'ambiente manostico egiziano intorno al IV secolo, tenendo conto insieme della documentazione copta e greca. Non sarà il caso di discutere tale documentazione, che abbiamo studiato in nostri recenti contributi sull'argomento, ai quali rimandiamo per una più ampia disamina (Orlandi 1984 (1) (2)). Vi è prima di tutto l'ambiente del Nord, quello forse più antico, comunque il più noto dalle fonti "internazionali". Esso comprende 2 gli insediamenti desertici ad Occidente del Delta, di Sceti, Nitria e Kellia, ed anche quelli orientali che si richiamavano ad Antonio. Esso è caratterizzato dai suoi più stretti rapporti con Alessandria, e dunque con il Patriarcato ed i suoi orientamenti teologici, le sue necessità di politica ecclesiastica, i suoi contatti con le altre regioni della Cristianità (White 1933). Qui troviamo infatti le più sofisticate esigenze culturali, ed anche (il che può essere appunto parallelo) anti-culturali, di un Macario, di un Evagrio, di uno stesso Antonio, di Isaia, forse di Ieraca, più tardi di Arsenio. E qui troviamo un minore interesse (almeno fino al V secolo) alla regolamentazione della vita monastica, che però non significa una radicale individualizzazione del movimento, tanto che la vita sarà comunque in gran parte comunitaria, ma liberamente tale. Per questo, fra l'altro, non bisognerebbe più ispirarsi alla brutale suddivisione di monachesimo anacoretico e cenobitico, che ancora è parte di odierne ricostruzioni storiche. Vi è quindi un ambiente medio-egiziano, situabile nella regione della Valle del Nilo a Sud del Faium e fino alla Tebaide vera e propria, intorno ai capoluoghi di Shmun e di Siout. Esso è il meno conosciuto, ed infatti si può caratterizzare come il più tipicamente copto, o meglio interiormente egiziano, nel senso che esprime una spiritualità ed una mentalità separate dall'ambiente internazionale, anche alessandrino, anche se probabilmente di espressione piuttosto greca che copta, fino al V secolo. Ad ogni modo le fonti che lo attestano sono oggi quasi tutte in lingua copta (talora per traduzione, però), e talora prevalentemente archeologico-epigrafiche. I personaggi più famosi sono Apollo di Bauit; Paolo di Tamma; Ouanofre (Onofrio); Aphu di Ossirinco. E' estremamente interessante come la loro cultura, per quanto si può capire, sia di tendenza "asiatica" (cioè di esegesi tendenzialmente materialistica) e dunque opposta a quella prevalente ad Alessandria. Il tipo di organizzazione monastica appare invece più simile a quella del Nord, cioè tendenzialmente libera. Appaiono però delle raccolte di regolamenti (come quella di Paolo di Tamma; inedita), che forse attestano un approssimarsi alla tendenza cenobitica tipica del Sud. Abbiamo finalmente un ambiente del Sud, nella regione compresa fra la città di Shmin e la prima cataratta, con Siene "porta dell'Egitto" e l'isola di File col suo famoso santuario. Qui prosperò prima di tutto il monachesimo pacomiano, troppo noto perché debba o possa essere in questa sede caratterizzato (Veilleux 1980-82). Preme tuttavia sottolinearne la vicinanza, di spirito e anche di azione, con l'ambiente di Alessandria e del Patriarcato, e attraverso esso con la cultura cristiana "internazionale". Segno di ciò è il fatto che le testimonianze che ne abbiamo (pensiamo soprattutto alle Vite di Pacomio e dei suoi diretti successori; ma anche a tante altre sparse in tutta la letteratura patristica orientale ed occidentale) sono in lingua greca (e 3 latina) come e forse più che in lingua copta. Ma si deve anche tener conto del fatto che i pacomiani, dopo il V secolo e segnatamente dopo Calcedonia, cadono in un certo oblio (Van Cauwenbergh 1914, p. 153-9), che noi riteniamo dovuto proprio al loro diretto coinvolgimento con il Cristianesimo internazionale, che impedì di coltivare caratteri specificamente egiziani, necessari poi alla sopravvivenza in una Chiesa che si staccava dal resto della Cristianità. Sono questi invece i caratteri spiccati dell'organizzazione monastica che era destinata a raccoglierne l'eredità, cioè quella fondata e diretta con mano ferma e vigile da Shenute (Leipoldt 1903). La confusione fra monachesimo pacomiano e shenutiano sembra alla base di un fraintendimento di fondo di quanto successe fra V e VI secolo; occorre invece aver ben chiaro che, se Shenute si ispirò all'opera del grande Pacomio, divenuto ormai indiscusso padre di ogni cenobita, mantenne la sua organizzazione sempre distinta, e direi culturalmente diversificata da quella pacomiana. Shenute accettò l'idea di una regola sull'esempio di Pacomio, ma ______ ne fece una sua; e non sembra si sia mai considerato soggetto o comunque spiritualmente tributario degli archimandriti pacomiani che regnavano nel monastero-capitale di Pbau. Non sarà fuori luogo notare come la stessa terminologia, diciamo così, "tecnica", con cui le due differenti comunità si esprimono, differisce in modo coerente e specifico. I pacomiani designano Pacomio per antonomasia con "apa", senza il nome; gli scenutiani usano "padre" o "profeta" come appellativo del nome. La comunità pacomiana è la "koinonia"; quella scenutiana la "synagoge". Non dimentichiamo, per finire, l'interessante e isolata testimonianza relativa ai vescovi-monaci di File nel IV-V secolo, che rappresentarono un'esperienza particolare, dovuta probabilmente all'ambiente di frontiera in cui si trovarono ad operare. Il lavoro nel monachesimo egiziano. Abbiamo detto che le fonti copte, che prenderemo in considerazione più sotto, vanno viste nel complesso della situazione storica e delle fonti nelle altre lingue. Il lavoro critico precedente al nostro, condotto quasi esclusivamente su tali fonti, ci permette di riassumere la situazione, senza bisogno di analisi minute, per poi confrontare i dati che le fonti copte ci forniscono. Le opere che terremo presenti, perché ci sono sembrate maggiormente impegnate sull'argomento del nostro contributo, sono: DOERRIES 1931 (forse il primo studio particolareggiato); HEUSSI 1936 (che ne riprende molti concetti); NAGEL 1966 (che amplia in parte la visuale); GUILLAUMONT 1979 (che rinfresca la problematica); finalmente il recente lavoro del QUACQUARELLI 1982. 4 Che la maggior parte degli ambienti monastici ammettesse la positività del lavoro è ormai un elemento da considerare assodato; e il saggio in cui più si insiste su ciò è senza dubbio quello ampio del Quacquarelli. Ma non si deve trascurare il fatto che, soprattutto all'origine, ma forse ancora in epoca più tarda, nel tardo IV secolo e nel V, l'apprezzamento verso un'attività lavorativa di chi si dedicava alla vita più o meno solitaria, comunque fuori dalle preoccupazioni mondane, variava fra un rifiuto quasi totale, un'accettazione rassegnata, e una cosiderazione positiva nella sostanza vera e propria del lavoro. Questa varietà di atteggiamenti è messa concordemente in luce da Doerries, Heussi e Guillaumont. I motivi del rifiuto del lavoro sono immediatamente comprensibili: secondo questa tesi, il lavoro faceva parte delle attività tipicamente mondane e corporali, che l'asceta (e quindi il monaco) si proponevano appunto di fuggire. I motivi della considerazione positiva del lavoro sono altrettanto comprensibili, ma varii; e si possono riassumere in quattro posizioni, che si trovano variamente intrecciate nella diverse fonti a disposizione. Prima di tutto sembra che esso sia stato raccomandato come rimedio al tipico male dell'"akedia", specie di rimbambimento sconfortato o al contrario di inquietudine irrazionale, di cui facilmente erano preda i solitari del deserto. Doerries e Nagel mettono soprattutto in rilievo questa posizione. In secondo luogo il lavoro consentiva al monaco di provvedere al proprio sostentamento senza ricorrere all'elemosina altrui. L'elemosina doveva essere un'opera buona da riservare ai veri bisognosi involontari, non a chi volontariamente si privava dei beni mondani. Questa posizione è messa in rilievo da Doerries, Nagel, Heussi, Guillaumont, concordemente. In terzo luogo il lavoro consentiva a sua volta di fare l'elemosina, acquistando ulteriori meriti oltre a quelli della vita ascetica in se stessa. E' quanto rilevano, di nuovo concordemente, Doerries, Heussi, Nagel, Guillaumont. Finalmente c'era un modo più sottile di apprezzare il lavoro, cioè quello di vederne un mezzo per mettere a frutto completamente le capacità della persona del monaco. Egli sviluppava nella solitudine ascetica i doni spirituali; e contemporaneamente poteva col lavoro sviluppare quelli corporali. Sembra che solo Nagel abbia dato rilievo a questa posizione. Per quanto riguarda la situazione organizzativa del lavoro, l'ambiente privilegiato dalla critica è quello pacomiano, assai più ricco di documentazione rispetto agli altri. Di tale ambiente ci ha parlato Pericoli Ridolfini, e del resto ci torneremo noi stessi. 5 Per il resto, poiché gli Apophthegmata sono fonte su ciò assai _____________ reticente, gli studiosi non hanno molto approfondito l'argomento. Fortunatamente, per l'ambiente del Nord (Nitria, Sceti, Kellia) abbiamo l'importante lavoro del White, il quale mette in rilievo come anche in un tipo di monachesimo tendenzialmente anacoretico, come quello, il lavoro aveva un'organizzazione accurata che finiva per assomigliare a quella pacomiana. E' vero che, dovendo il lavoro essere di tipo semplice per permettere la contemporanea meditazione, il tipo di attività principale era quella di intrecciare cesti con foglie di palma, oppure cordami. Ma era previsto non solo lo scambio sul posto dei prodotti così ottenuti, ma anche la vendita al mercato. C'erano poi altri tipi di lavoro, come la collaborazione al raccolto agricolo, che presupponeva contatti col mondo esterno, e così l'attività libraria, di scrittorio. Anche la coltivazione di orti era permessa e ampiamente esercitata. Finalmente è interessante come anche in questo ambiente fosse stata istituita fin dai primi tempi la figura dell'economo, che gestiva le finanze di una comunità. Evidentemente la mania egiziana per la minuta e precisa amministrazione non poteva non influenzare anche la vita degli anacoreti. Il lavoro nelle fonti monastiche copte. E' dunque possibile a questo punto passare all'analisi della documentazione in copto, per vedere quali analogie e differenze essa ci mostra, rispetto a quella che è stata più normalmente tenuta presente dagli studiosi precedenti. Diremo subito che, per quanto riguarda l'ambiente del Nord (Nitria, Sceti e Kellia; ed anche per Antonio) non ci sono fonti esclusivamente in copto, e dunque nulla di nuovo vi è da dire. Le fonti copte sono semplicemente traduzioni di opere note in altre lingue, come gli Apophthegmata Patru o la Vita Antonii e le sue Lettere. Assai differente è la situazione per quanto riguarda il Medio Egitto, cioè la zona che abbiamo definito come estendentesi fra il Faium e Siout. Per questo ambiente abbiamo quasi esclusivamente fonti in copto, tanto che esso non è stato mai individuato e proposto come in qualche modo indipendente dalla critica precedente. PAOLO DI TAMMA Il nome che ci sembra più importante, sotto questo profilo, è per l'appunto il nome di un anacoreta che difficilmente si trova menzionato nella letteratura sull'argomento, e la cui personalità deve essere riscoperta e valutata. Purtroppo la sua vita, che pure è pervenuta in copto (parzialmente) e in arabo è frutto di una redazione tardiva, riempita di avvenimenti incredibili e romanzeschi. Ma il fatto che di lui rimangano anche frammenti non 6 indifferenti delle opere originali testimonia di per sè la sua importanza. Per quanto dunque si può vedere dai testi conservati di Paolo di Tamma (che sono ancora inediti; li citiamo dai manoscritti), il concetto per lui fondamentale, che stava alla base della sua interpretazione del monachesimo, è quello della solitudine, in particolare della solitudine della cella. Ma alla solitudine è legato immediatamente il concetto della povertà, che, se ben vediamo, comprende l'astensione, per quanto più fosse possibile, dal lavoro. Una sua breve lettera inizia infatti con queste parole: "Il tuo poco di pane e il tuo poco d'acqua prendili, mio caro, sopportando la tua residenza in povertà". In un lungo testo relativo appunto alla cella, abbiamo prima di tutto (e spesso ripetuto) il chiarimento della essenzialità e quasi della totalità della cella per la vita del monaco: "Figlio mio, obbedisci a Dio e osserva i suoi comandamenti, e resta nella tua residenza essendo dolce per te da te stesso. La cella resta nel tuo cuore mentre cerchi la sua grazia e la sofferenza della tua cella verrà con te da Dio". Ma presto al concetto della solitudine è unito quello della "miseria", intesa probabilmente anche come situazione materiale: "Ora dunque, o misero, adora Dio con tutto il tuo cuore e con tutti i tuoi pensieri e con tutta la tua forza e con le tue parole, e poni il tuo cuore nella tua residenza come anche in Dio". E poco dopo: "E' il vanto del povero monaco il deserto e la saggezza nell'umiltà. Il povero dunque che è umile sarà chiamato "Iosedech" dai profeti. Infatti il nostro Signore è molto ricco ma si fece povero per noi". (L'allusione al nome di Iosedech è abbastanza straordinaria, e rimane per noi non ben spiegabile. Costui è nominato soltanto in I Chr. 5.41 (ovv. 6.15), dove si dice che egli "se ne andò (da Gerusalemme) quando Jahve deportò Giuda e Gerusalemme per mezzo di Nabucodonosor". - Forse Paolo di Tamma intende sottolineare il ritiro di Iosedek, anche per la composizione del nome: Iao - Sadaka = dividere, separare). Probabilmente il lavoro e dunque un rapporto con gli uomini "di fuori" è visto come fonte di turbamento: "Che il legame dell'esistenza, mio caro, non ti trattenga . . . Non prestare orecchio ad alcuno che parla con te in modo agitato, cosicché anche tu ti agiti e lasci la tua cella". "Beato un povero misero che si fa anacoreta. Egli è compagno di Dio come Abramo, poiché il Signore non farà nulla senza rivelarlo ai suoi servi i profeti. ... Sii dunque saggio restando nella tua cella, edificando la tua anima, mentre la tua gloria sta con te e l'umiltà sta con te, mentre il timore di Dio ti circonda giorno e notte, mentre la cura del tuo corpo sta in lui". (E' possibile che l'accento dato al fatto di lasciare la cura del corpo a Dio alluda 7 alla posizione che tendeva a rifiutare il lavoro manuale del monaco.) "Se dunque rivestirai la povertà in questo mondo e l'umiltà, sarai con il Figlio di Dio nel suo regno" - E si noti che alcuni degli anacoreti menzionati nella c.d. Vita Onophrii sono appunto nudi completamente, dunque rifiutando anche il lavoro che poteva servire a procurare i vestiti, cosa che invece stava molto a cuore, come vedremo, nell'ambiente pacomiano e scenutiano. E di nuovo l'accento sull'evitare ogni turbamento: "Non far entrare parole di uomini nella cella, nè confusione nè cattivi pensieri di demoni introducili in essa. E più sotto: Ritirati a causa dell'uomo. Infatti i santi e il Signore nostro morirono per opera degli uomini. Ed io ho molto sofferto a causa della guerra dell'uomo, più che della guerra del deserto". "Hai udito dunque la lode del povero che sta umiliato nella sua cella". Solitudine, povertà, umiliazione, meditazione, sono quattro caposaldi della vita anacoretica, che probabilmente escludono il lavoro in senso, appena appena organizzato, dalle possibili attività dell'anacoreta. Si ricordi che sia al Nord, sia al Sud, il lavoro del monaco prevede anche uno scambio o commercio di oggetti con il mondo circostante. HISTORIA MONACHORUM - VITA ONOPHRII Passiamo ora ad un testo che è ben noto in greco (BHG 1378-1382) e in latino , ma soltanto parzialmente e sotto il punto di vista agiografico, come pia storia della vita dell'anacoreta Onofrio. Nella redazione copta (Budge 1914, p. 205-24), cioè quella completa, esso risulta invece un resconto ampio e interessante dell'ambiente monastico medio egiziano. Non sarà un caso che proprio questa testimonianza del monachesimo medio-egiziano ci parli della problematica intorno ai due tipi di vita monastica: P. 40 (del ms.) (racconta lo stesso Onofrio): "In questo convento (il convento di Erete presso Shmun) vivevamo tutti insieme, e mangiavamo insieme, e la pace del Signore era in mezzo a noi che vivevamo in contemplazione glorificando il Signore. Io ero un fratello giovane e apprendevo la dottrina della pietà divina da alcuni grandi santi. E li ascoltai molte volte parlare della vita di Elia di Tisbith, di come fosse tanto potente nel Signore, restando nel deserto. E che anche Giovanni Battista, che nessun nato da donna superò in grandezza, abitò nel deserto fino al giorno della sua manifestazione in Israele. Dunque dissi loro: Padri miei, quelli abitano nel deserto sono più onorati di voi di fronte a Dio? Mi risposero: Sì, perché noi ci vediamo gli uni con gli altri e ci incontriamo alle synaxeis con 8 gioia. Se abbiamo fame troviamo il cibo preparato per noi. Se abbiamo sete troviamo acqua per bere. Se siamo deboli i fratelli ci aiutano. E se vogliamo cose da mangiare noi le prepariamo insieme. Quelli invece che sono nel deserto, dove troveranno tali cose? Se avranno fame, dove troveranno da mangiare? Da principio infatti, quando si dedicano all'anacoresi, soffrono per la fame e per la sete . . . Ma non appena essi apprendono la sopportazione, la compassione di Dio li tocca ed Egli manda il suo angelo a servirli. . . . Non hai udito: Il Signore non dimenticherà mai il povero, la pazienza del misero non andrà perduta? E ancora: Il povero che invoca, il Signore lo ascoltò e lo liberò da tutte le tribolazioni, perché il Signore dà a ciascuno secondo il suo cuore. Benedetto infatti colui che fa la volontà di Dio sulla terra, perché gli angeli sono al suo servizio. Anche qui, come in Paolo di Tamma, la contemplazione di Dio nella perfetta solitudine del deserto sembra escludere ogni altro tipo di attività, nella fiducia che sarà Dio stesso a provvedere ai bisogni dell'anacoreta. Si noti infatti che la leggenda tramandò che Onofrio (come altri anacoreti) si nutriva per mezzo di una palma, cresciuta miracolosamente, che gli dava dodici frutti all'anno, uno per mese. L'AMBIENTE PACOMIANO Le regole di ambiente pacomiano ci offrono naturalmente l'altro ed opposto aspetto della considerazione del lavoro presso i monaci egiziani. Ma prima di esaminare i brani di regole post-pacomiane da cui possiamo trarre precise informazioni sulla teoria e l'organizzazione del lavoro presso i pacomiani, desideriamo attrarre l'attenzione su un brano di un testo di ambiente pacomiano, assai poco noto, che ci parla di un tema relativamente trascurato. Per lavoro si è inteso generalmente in questo congresso il lavoro produttivo, col quale si creano oggetti o si interviene sulla natura. Ma non meno importante era nell'antichità, come oggi, il lavoro del mercante. Ecco dunque le parole poste nella bocca dello stesso Horsiesi, in un dialogo con un diacono alessandrino, Timoteo (ed. Crum 1915, p. 70-71). TIMOTEO: Che dobbiamo pensare dei mercanti della nostra città? Essi vivono del loro commercio. HORSIESI: Se rimangono nella misura che gli compete, non faranno peccato, purché non vi sia giuramento. Molti oggi stanno nei conventi, e i mondani sono migliori di loro, perché non danneggiano nessuno col loro commercio. Molti infatti andranno a dare il prezzo di una merce che è venduta, onestamente e pacificamente. (Una volta che) interrogammo nostro padre Teodoro: Perché non stai più attento a comprare una merce o a venderla? Egli disse: Ciò che dobbiamo dare in carità, diamolo, però come chi vende e chi compra dirà. 9 Soltanto, non invochiamo il nome del Signore su una merce materiale, che perirà. Conviene infatti che osserviamo i comandamenti di Dio; ed egli ordinò di fare la carità, ma ordinò anche: che le vostre parole siano: sì sì e no no. TIMOTEO: Qual è la differenza fra ricco e povero, quando vanno a comprare da un venditore? HORSIESI: Il vendere con eguaglianza. Infatti il Signore diede la mercede agli operai con eguaglianza. Propongo questo testo, lasciando aperte le molte questioni che esso pone. Ma si vede che esso può aprire sul comportamento "economico" dei pacomiani delle prospettive forse inedite. Molto più normale è il quadro che troviamo in un lungo testo copto, rivendicato ad Horsiesi dal Lefort (1956), il cui genere può essere giustamente definito "Regole". I passi per noi interessanti sono i seguenti. Pigrizia nella preghiera e nel lavoro (p. 86-7) Chi si alzerà la notte per pregare, se il suo compagno di cella resta coricato, ... uscirà fuori dalla porta e batterà sulla stuoia, affinché il dormiente si levi e preghi. ... Se egli non si leva ancora, lo chiamerà per nome... Se, quando egli è sveglio, si rifiuta di alzarsi per pregare, se non è malato di malattia mortale... ed è solo pigro, la maledizione proferita dalle Scritture sul pigro sarà la sua condanna. Allo stesso modo, colui che è pigro nelle occupazioni materiali, e non lavora con tutte le sue forze per guadagnare con la sua fatica il proprio cibo ed il proprio vestimento e tutto ciò che è necessario al suo corpo... lo si metta alla portineria. Ma se egli continuerà a vivere del lavoro dei suoi fratelli e a vestirsi con ciò che essi hanno radunato, anche se è giovane e senza peccato, ma è pigro, sarà simile al figlio di un grande e nobile principe di questo mondo, i cui fratelli sono nella gloria e nel piacere della ricchezza e degli onori... mentre egli è nell'abiezione della mendicità. . . . Questo è il modo con cui i santi e gli angeli guarderanno il pigro: anche se egli è giusto, nel luogo della felicità eterna e nella gioia del regno dei cieli egli è un mendicante. Perciò guardiamoci bene dall'essere pigri: bisogna sì produrre per Dio dei frutti fra quelli dello Spirito Santo; ma anche dei frutti fra quelli che il corpo ha bisogno. Fare bene ciascuno il proprio lavoro (p.88) Che ciascuno di noi, nel timore di Dio, si applichi bene e accuratamente al lavoro che gli è assegnato. Gli economi prenderanno cura di tutti gli oggetti di cui sono responsabili, per evitare che vadano in rovina; e non devono, per negligenza, lasciare bagnare il pane nell'acqua e guastarsi; o per 10 pigrizia preparare della salamoia per due giorni, mentre bisogna prepararla giorno per giorno... E non devono mettere in acqua troppi datteri per far il succo di datteri, tenendoli per due o tre giorni tanto che il gusto dei datteri inacidisce. Non devono far bollire più ceci di quanti servono per una settimana... Insomma, noi dobbiamo vegliare su tutto con fede, perché le cose della Koinonia (comunità) non sono cose carnali, come quelle del mondo. . . . I cuochi, tutto ciò che cucineranno per i fratelli, lo prepareranno con grande cura nel timor di Dio, e cuoceranno tutto a puntino, sia sul braciere sia nella pentola. Veglieranno a non bruciare troppa legna, soltanto tre pezzi per focolare, secondo la regola. . . . Copriranno il fuoco affinché ciò che si metterà in pentola, sia frumento, sia lenticchie, si rammollisca dolcemente, dal momento che il troppo fuoco all'inizio impedisce di rammollirsi bene. . . . Quelli che vegliano sui malati baderanno ugualmente a cucinare secondo i bisogni del malato, di cui prenderanno cura con grande compassione. Chiunque è designato a tale incombenza, ivi compreso chi distribuisce l'acqua e la pompa per i fratelli, si laverà le mani prima di attingere l'acqua. . . . E' anche dovere degli economi non lasciar rovinare per negligenza alcuna marmitta o altra pentola, sul fuoco, lasciandola senz'acqua o senza rimestare... . . . Che ogni operazione, piccola o grande, sia iscritta nel luogo dell'economo, visibilmente e chiaramente, affinché il nome di Dio sia glorificato in tutto per tutte le opere che facciamo. Che esse siano fatte bene, in modo che, chiunque le veda, ne siamo soddisfatti . . . l'economo che prepara il mangiare, il superiore del convento, colui che ha cura delle bestie e dei maiali, chi è occupato nell'agricoltura e ogni altra occupazione, secondo la nostra vocazione. . . . Il Signore, parlando a Mosé dal mezzo delle fiamme, e dettandogli ciò che egli avrebbe stabilito come legge per i figlio d'Israele, ... diede loro ordini su tutto, perfino su una bestia ferita da una fiera o sventrata da un toro. Vedete dunque che davvero saremo ritenuti responsabili di tutto. Non siate negligenti in nulla, perché le opere dell'economato sono ordini venuti da Dio... La mietitura (p. 91) Il superiore del convento designerà l'uomo che marcerà alla testa dei fratelli incaricati della mietitura. Costui avrà la responsabilità di mettere i fratelli in cammino per il lavoro e dare il segno della fine; e anche del luogo dove fare la mietitura ... con il consenso del superiore. . . . Che nessuno volti la schiena al suo vicino per lasciarlo indietro 11 nella mietitura; al contrario, finché è possibile, teniamo il nostro fratello sulla stessa linea. Non cadiamo nella vanagloria, perché è Dio che ci dà la forza; e non disprezziamo il nostro prossimo. SHENUTE Prenderemo ora in considerazione alcuni passi nei quali Shenute si occupa del problema del lavoro, soprattutto nei riguardi dei monaci del suo monastero. Questi passi sono sufficientemente chiari dal punto di vista che ci riguarda, e non hanno bisogno di commenti. In essi si accetta pienamente l'atteggiamento dei pacomiani, non solo benevolo verso tale attività, ma anche volto ad imporla come necessaria e a regolamentarla come fondamentale (accanto alla preghiera) nel quadro della vita del monastero. L'ozio è il padre dei vizi (ed. Leipoldt 1908-13, III p. 110-1, n. 37): Ancora, occorre e conviene che l'uomo lavori con le sue mani. Chi infatti si esamini, troverà (purché faccia attenzione) che noi spesso, quando non abbiamo nulla per le mani, ciascuno a suo modo o scrive per terra con le dita o altre cose; o mette cocci uno sull'altro e poi li fa cadere come fanno i bambini che giocano; o si accarezza il capo o la barba, o si tocca le vesti o le unghie o gli occhi o altro, senza alcuna necessità, ma per un impulso vacuo. (Esempi...). Questo è l'aspetto dell'animo di molti oziosi, inani alle opere della salvezza e della vita, pronti a commettere e portare a termine ogni tipo di peccato. Vedete invece quanta attenzione faccia colui che fa qualche cosa, perfino chi scrive un libro, perché molto si cura di ciò che fa a causa dell'utilità che riceve dalla sua opera. Questa è la condizione di tutti gli uomini pii, i cui animi sono dediti alla pratica della pietà, sempre memori del loro andare nelle mani di Dio. Sul lavoro dei monaci per il proprio sostentamento (ibid., III p. 92-94, n. 30): Vi dirò di ciò che mi chiesero dei vescovi ad Antinoe. Dissero: E' giusto ciò che fa questo genere di monaci, o anche altri, che dicono: noi preghiamo; e (perciò) non lavorano? - Inoltre ciò che chiesero certi presbiteri timorosi di Dio e giustamente preoccupati dei beni che sono portati alle chiese: E' lecito che i responsabili (delle chiese) li spendano solo per se stessi, o no? Risposi: Queste due questioni che mi chiedete non sono difficili a risolversi per chi voglia (davvero) l'utilità della propria anima. L'apostolo è uguale ieri, oggi, e sempre; egli dice: chi non vuol 12 lavorare, non mangi. Dottrina invero perfetta. Dice anche: Quelli che lavorano ai templi mangiano delle cose dei templi. Quelli che si occupano dei santuari (thysiasterion = altare) dividono fra sè e l'altare. - L'altare e la chiesa sono una cosa sola. Udite (il verbo): dividere. Dunque se gli uomini che vogliono prendere un pane o parte di qualche altra cosa sono sottoposti a lasciare all'altare la sua parte di ogni cosa, affinché i proprietari - che sono le vedove gli orfani i poveri gli zoppi i pellegrini e tutti gli altri di cui è scritto - non gemano per ciò che gli viene tolto; e (d'altra parte, se,) quando noi pecchiamo fra noi, non è forse vero che pecchiamo anche contro l'altare, e gli facciamo torto? Allora deruberemo anche ciò che è di quelli, come rubiamo le nostre cose a vicenda, anche se daremo ad esso (all'altare?) alcune delle nostre cose? . . . Dirò soprattutto che quegli uomini pigri di tal fatta, come non lavorano per mangiare il loro pane, così neppure fanno le preghiere. (... Di nuovo esempio dell'apostolo...) Tutti devono lavorare (ibid., IV p. 101, n. 71): Ad ogni lavoro che sarà fatto in questi monasteri, sempre, dovranno partecipare anche i capi, e nessuno dovrà togliere il proprio collo dal giogo valendosi del titolo che porta, lasciando che gli inferiori fatichino, vecchi e giovani. Allo stesso modo, coloro che vivono al villaggio, salvo che non siano malati, non potranno essere solo uomini di comando, ma anche di lavoro. Lavoro e preghiera in comune (ibid., IV p. 109, n. 71): Sempre, in queste comunità, i fratelli che si radunano insieme si comportino in questo modo. Siano essi 20 o 30 o 40, o più, o addirittura essendo tutti insieme, quando si riuniranno nel luogo di lavoro, prima di lavorare pregheranno una volta. E quando si appresseranno alla pausa, pregheranno una volta. Così dovrà essere ogni giorno, sia che seghino dei giunchi, sia che prendano foglie di palma, sia che riempiano il posto destinato alla macerazione dei giunghi per intrecciarli, o altri simili lavori. Ed anche le preghiere che faranno nelle loro case per conto loro, sia d'inverno sia d'estate, le faranno lavorando a qualcosa dovunque siano. L'orario di lavoro (ibid. IV p. 110, n. 71): Nelle nostre comunità, chiunque faccia qualcosa di diverso dal normale lavoro manuale - p.es. costruire una chiesetta o altre cose simili - faranno sempre in modo da interrompere il lavoro all'ora sesta. E non dovranno decidere: Per continuare a lavorare mangeremo nel pomeriggio, magari il doppio. E' questa infatti la regola seguita - anche se l'abbiamo poi trascurata - per costruire questi templi e la casa di Cristo. E finché vivrò starò attento all'orario per costruire e per non costruire, per mangiare e per non mangiare, per cessare il lavoro o continuarlo. . . . 13 E che nessuno dica: Mangeremo (di più) per lavorare; o diminuisca l'opera non lavorando, per mangiare. E il tempo di interrompere questo tipo di lavoro, sia il seguente. D'estate, alla sesta o alla quinta ora - e se farà troppo caldo, nessuno mangerà a mezzogiorno, nè ozierà nella sua dimora; e se vi è una pausa, si occuperà delle sue piccole cose nella sua dimora. D'inverno, faranno una breve pausa fra l'inizio e la fine del lavoro. La quantità di lavoro (ibid., IV p. 159, n. 77): Quando i fratelli della nostra comunità saranno dispersi in vari luoghi per lavorare, p.es. a raccogliere canne o cose simili, nessuno si dia troppo zelo per sopravanzare i compagni, come fanno gli uomini mondani, che gareggiano per vanteria. Anzi, chi potrebbe fare l'opera di due o anche di cinque uomini, badi di fare l'opera di un solo, affinché lavori veramente solo a causa di Dio. Ma d'altra parte non dovrà essere pigro, ma misurerà le sue forze, sapendo che ciò che farà è quello che troverà. La specializzazione (ibid., IV p. 163, n. 77): Nessuno di coloro che entrano nella nostra comunità per farsi monaco potrà dire: Io farò qui o altrove lo stesso lavoro che facevo a casa mia. Il motivo infatti per cui ognuno è venuto qui, è mostrato solo dalle sacre scritture o dai libri scritti da noi. Se dunque qualcuno non vorrà fare alcun lavoro se non quello che esercitava prima a casa sua e nel quale è pratico, gli si dirà: Se sei venuto qui per esercitare un certo mestiere e non a curare la tua salvezza, ecco, il mestiere conviene solo al luogo da cui sei venuto. E si aggiungerà: Se non vorrai lavorare se non in quello che hai imparato a casa tua, chi potrà credere che tu sei pronto ad abbandonare le tue occupazioni secolari, la menzogna, la libidine, e tutti gli altri vizi... La stessa cosa vale per coloro che hanno imparato un mestiere dopo che sono entrati qui; e per coloro che vengono trasferiti da uno all'altro monastero. Nessuno infatti deve entrare nella nostra comunità per una casa o un posto o un'occupazione, ma tutti per far penitenza dei nostri peccati, e se siamo entrati senza peccati, per cercare di evitare di farne. Sulla comunità dei beni (ibid., IV p. 89, n. 67): In ogni cosa, quelli che stanno nella nostra comunità, diano agli altri tutto quello di cui hanno bisogno per timore di Gesù e senza alcun desiderio di possedere più degli altri. E colui che, anche essendo un superiore, prenderà una cosa qualsiasi in suo possesso esclusivo, fosse anche dell'erba medica (?), dicendo: E' mia; costui sarà nemico alla nostra comunità. (ibid, IV p. 111, n. 72): ... e tutte le loro cose saranno depositate presso di loro. Badate bene che ho detto "depositate" e non "saranno di essi, o in loro potestà"! Dire ciò sarebbe turpe 14 ed è illecito il farlo. Le cose infatti sono di proprietà di Gesù, senza la più piccola eccezione, riunite nel vincolo della fratellanza. (ibid., IV p. 165, n. 77): Tutti gli utensili e i materiali di cui abbia bisogno chiunque per qualunque lavoro, senza nessuna eccezione, dovranno essere richiesti dal preposito della casa in cui si esercita il lavoro. HISTORIA MONACHORUM APUD SYENAS Ci rimane da vedere solo un testo, relativo ad un ambiente situato nel più profondo Sud, intorno a Siene e all'isola di File. Qui ritroviamo di nuovo un genere di monachesimo solitario, ma non spinto all'estremo. Gli anacoreti sembrano vivere a piccoli gruppi, da due a quattro, e, cosa per noi importante, coltivano il lavoro, come i loro colleghi del Nord. Dice infatti l'Historia monachorum detta Vita Aronis (trad. ____________________ ____________ Orlandi 1984(1), p. 77): "Incontrammo un santo vecchio di nome Zaccheo, invecchiato nell'anacoresi, grande asceta. Ed altri due fratelli vivevano presso di lui essendo suoi discepoli. Il nome dell'uno era Serapammon ... egli esercitava questo tipo di carità, che se un uomo veniva a cercare un prodotto manuale da lui, prima si rivolgeva ai fratelli e diceva loro: Chi ha un prodotto manuale lo porti da me che glielo pagherò (...lacuna)". Si vede dunque che in questo caso è testimoniata non solo l'attività lavorativa dei monaci, ma anche un certo piccolo commercio, come del resto era usuale altrove. Maggiori particolari non ne troviamo. 15